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sabato 26 giugno 2010

L'Italia s'è desta


Bossi nelle sue esternazioni esagera sempre. Eppure come non leggere nelle sue folli elucubrazioni un fondo di verità. La Padania tanto sognata e tanto agognata dal senatur può andare bene per un concorso di bellezza, ma non per creare una nazionale di calcio. La nazionale rappresenta una nazione e come gli Stati Uniti ci insegnano, anche se frammentati in 56 stati, la squadra di calcio che li rappresenta è solo una, come una è la bandiera dei loro atleti. Il Bossi però ha ragione quando non si sente rappresentato dai nostri “atleti”. La figuraccia rimediata ai mondiali è solo la punta dell'iceberg del brutto momento che il nostro sport sta passando e tutti, a tutti i livelli, ne sono colpevoli. Prendiamo l'Inter, il cui vero nome è Internazionale: mai aggettivo fu più azzeccato per indicare una squadra dove militano atleti di tutto il mondo e solo due o tre italiani. Ma anche altri club si avvalgono di questa sorta di internazionalità, molto meno marcata, però sempre alla caccia del nome straniero. Il “clientelismo” e gli interessi stanno minando le basi del nostro sport in tutte le discipline e moltissimi ragazzi vengono tenuti in disparte a favore di altri più “ammanicati” o convenienti. Guardiamo le corse in moto, terreno a me caro e conosciuto. Nella 125 il migliore italiano è relegato alla 14\15 posizione, quando in un passato non molto lontano eravamo i protagonisti assoluti. Oggi se un giovane si vuole avvicinare alle due ruote deve portare con se prima una buona dote di danaro, poi la capacità di saper guidare. Volete degli esempi? Rolfo, Canepa, De Angelis (per fortuna sanmarinese) buoni piloti ma molto più scarsi di tanti altri che militano in campionati minori. Oggi per fare un trofeo Yamaha R1 occorrono minimo 40.000 euro e non è detto di arrivare nelle prime posizioni, perchè i piloti “ufficiali” dispongono di materiale migliore, che a parità di moto “di serie”, fa tanta differenza (vedi la squalifica di Zerbo nella Hornet Cup) impedendo ai giovani di emergere. Negli sci se non sei del nord non arrivi sui campi gara, eppure un certo Tomba Alberto di Bologna ha dimostrato il contrario. Nel tennis i ricordi sono fermi a Panatta, Schiavone a parte... Nel nuoto Rosolino ha preferito l'Australia per allenarsi, anche se poi ha nuotato per il tricolore. Oggi lo sport è una sorta di vetrina per potersi poi sganzare con le veline, letterine, zoccoline, per poi essere con la lingua di fuori dopo 15 minuti di partita. I ragazzini sognano questo, sognano il tutto e subito lasciando gli sport di sacrificio, ciclismo in primis, ad altri, perchè comunque non utili per essere sempre in primo piano e sulle pagine dei giornali. E paraddossalmente nello sport che è sulla bocca di tutti, il calcio, non siamo in grado di creare un vivaio in grado di rinfoltire le fila di una nazionale che dovrebbe rappresentare tutta l'Italia e che forse la rappresenta proprio per quello che è... Un paese di guelfi e ghibellini dove tutto vale il contrario di tutto, dove io sono meglio di te a prescindere da quello che faccio, dove pur di non dare soddisfazione all'avversario preferisco affondare la barca. “Siam pronti alla morte” recitano le brutte parole di un inno stantio e privo di senso, ma la morte di che? Non certo del conto in banca, perchè quello è sempre superforaggiato dai club compiacenti. E allora largo ai giovani che hanno fame e sete di vittoria, purchè non si scontrino con i figli degli allenatori in discoteca (Lippi junior docet)... Il mea culpa di Lippi e sopratutto le parole di Abete me le metto sul gozzo, come le parole patetiche di Buffon... Tutti sono colpevoli e parafrasando le parole di Gattuso i “vecchi” lo sono ancora di più...
Povera italia sportiva (e non solo) in continuo declino sopratutto identitario poco desto, senza l'elmo di Scipio se non il casco di Biaggi o Rossi, e la vittoria sempre più lontana e l'unica chioma rimasta è quella di Simoncelli per fortuna non schiavo di Roma...

martedì 22 luglio 2008

Ma io sto dalla sua parte

di Vittorio Sgarbi

No. No. Ha ragione Bossi. La presa di distanza degli alleati, almeno sul piano formale, e l’indignazione degli avversari si basano sopra le prevedibili considerazioni sul rispetto dello Stato, altrimenti denominato patria (da padre), e dei suoi simboli. Naturalmente si capisce che la più forte irritazione, prima che degli avversari, è degli alleati, di Alleanza nazionale in particolare che, dal presidente della Camer aal ministro della Difesa, possono pienamente esprimere le loro funzioni istituzionali super partes. Così Fini può condannare affermazioni e critiche, e insulti, che «offendono quello che è il sentimento nazionale». Formule un po’ banali e di circostanza.
La sinistra è perfino più indulgente; e insiste con Veltroni e Di Pietro per reclamare la responsabilità del presidente del Consiglio che dovrebbe rispondere delleaffermazioni di Bossi, dimenticando che Veltroni non si sogna di rispondere degli insulti al capo dello Stato e al presidente del Consiglio e a vari ministri da parte degli amici di Di Pietro. E fin qui astrattamente, si tratta di prese di distanza ragionevoli. Ma proprio dagli schizzinosi del Popolo della libertà viene la giustificazione per Bossi. Ed al senatore Grillo (da non confondere conl’omonimo Beppe) ci viene il grido di dolore perché, diversamente dalla bandiera tricolore, l’inno di Mameli non è affatto l’inno nazionale. Viene utilizzato per prassi consolidata, ma non è indicato né nella Costituzione, né in una legge ordinaria. Da tempo il senatore cerca con un disegno di legge di trasformare una troppo fortunata poesia in inno ufficiale italiano.
Se l’Inno di Mameli non è l’inno ufficiale dello Stato, Bossi non ha fatto alcun gesto inadeguatoe indegno per un ministro della Repubblica, ma ha sempliceme nte ed eloquentemente manifestato il suo disappunto per una brutta poesia. Ha, dunque, espresso un condivisibilissimo pensiero critico. Se l’inno non fosse, per consuetudine, ripetuto e ricordato quotidianamente sarebbe stato dimenticato come tutte le poesie del suo rispettabile, ma non grande autore: Goffredo Mameli, patriota prima che poeta. Immaginiamo di sottoporre a un giovane lettore senza musica, anch’essa modesta (di Michele Novaro, ignoto quanto merita), il puro testo dell’inno. Alla terza riga, il primo ostacolo: «L’elmo di Scipio». Perché Scipio? E chi era? Scipione l’Africano (dico l’Africano, e a Bossi si rizzano i capelli, già ritti: dunque un extracomunitario!), il vincitore di Zama. E quanti sanno dov’è Zama? Non lo sappiamo ma - e io lo scopro adesso - probabilmente è a sud di Tunisi.
Di quell’elmo, di un romano in Africa, l’Italia, secondo Mameli, inspiegabilmente, «s’è cinta la testa». Concetto difficile, forma ingrata. L’elmo, infatti, come il cappello, si mette, non si cinge. D’improvviso arriva la domanda fatale: «Dov’è la vittoria?». Risposta: «Le porga la chioma, ché schiava di Roma Iddio la creò». Il giovane lettore scopre così che la vittoria, inopinatamente, ha una chioma e che dovrebbe porgerla all’Italia, nonsi sa perché. Forse metaforicamente in quanto la chioma è «sineddoche» (figura letteraria che indica la parte per il tutto) di vittoria. Non contento della sua immaginifica invenzione, Mameli ci suggerisce che Iddio la creò (la vittoria, non l’Italia) schiava di Roma. E qui anche un lettore attento, e ovviamente Bossi, lettore del Nord, si incazza e, silenziosamente, esibisce il dito medio senza parole. Non un grande insulto. Vuol dire (da ribelle: l’avrebbe fatto anche Mameli contro l’Austria): schiava chi? Che sia la vittoriao che sia l’Italia (del Nord soprattutto), schiava di nessuno, tantomeno di Roma.
La parola schiava, anche riferita alla vittoria (si diano pace Fini,Schifani e Casini) è inaccettabile. Per chiunque. Tanto più per Bossi, che vuole liberare il Nord, con la vittoria della Lega, dalla schiavitù di Roma. E quindi vede rosso (in tutti i sensi) e alza il dito. Che c’è di male? Dov’è l’insulto? Mameli poi non si trattiene. E qui nasce la questione di principio: è lecito, pur essendo italiani, aspirare al federalismo che, necessariamente,comporta di secedere per poi federare? E se senza insurrezioni di popolo e senza violenza, si persegue l’autonomia del Nord e la Costituzione della Padania con parole, comizi, anche proposte di legge, si compie un illecito? Se voglio cambiare la Costituzione come accadde per l’immunità parlamentare; se voglio introdurre il divorzio, come accadde rispetto al codice civile, dovrò pure prendere e dichiarare una posizione? Dovrò pure prendere le distanze, magari con un dito, dal testo della Carta da cui intendo dissociarmi per trasformarla?
Anche su questo Mameli non è fatto per la Lega. Nella seconda strofa esprime un concetto opposto (e conseguentemente mi sembra naturale che Bossi si dissoci, sia pure irritualmente): «Noi siamo da secoli/ calpesti, derisi/ perché non siam popolo,/ perché siam divisi./ Raccolgaci un’unica/ bandiera, una speme:/ di fonderci insieme/ già l’ora suonò». E il dito si alzò.