Visualizzazione post con etichetta seconda guerra mondiale. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta seconda guerra mondiale. Mostra tutti i post

sabato 31 gennaio 2009

I missili di Obama W

Ebbene si. Noi che lo abbiamo sempre saputo e detto, la notizia non ci stupisce affatto. Ma per tutti i pacifisti, verdi, arcobaleno, radical chic, bonisti, perbenisti, razzisti, la notizia li dovrebbe sconvolgere. I giornali partigiani, quelli che sbattono in prima pagina il presidente americano, solo perchè "scuro" non hanno dato della notizia (solo la Stampa con Maurizio Molinari) che al quarto giorno di presidenza, Barack Obama ha lanciato cinque missili in due attacchi militari in Pakistan (almeno venti morti). Repubblica e Corriere niente, anche perché erano impegnate a scrivere la balla che sotto Bush c’era "il divieto totale ai fondi pubblici per la ricerca sulle staminali" (Corriere), tre errori in una sola frase: il divieto non è totale, i fondi pubblici non sono vietati, la ricerca sulle staminali non è vietata. Il Corriere, inoltre, non s’è accorto dei cinque missili sul Pakistan anche perché impegnato a titolare così, "Seggio a una sconosciuta", la decisione del governatore di New York di nominare al posto di senatore lasciato vacante da Hillary Clinton una deputata eletta due volte al Congresso di Washington. Sconosciuta a chi?
Questo è Barak Obama signori. Noi lo sapevamo e ci piace lo stesso, ma voi adesso che dite? Tornerete a bruciare la bandiera degli States dopo neanche 15 giorni dal vostro orgasmo collettivo? Dove sei adesso accusatore di Bush e sostenitore di Obama, dove sei?

sabato 26 aprile 2008

Quel viaggio dell'orrore (1945)

Ancora un altro viaggio nella nostra storia, tra vincitori e vinti.
Nel maggio 1945 quaranta persone cercarono di fuggire da Savona: gli uomini della Resistenza li catturarono, violentarono le donne e li uccisero tutti
Esiste un massacro, che tutti tendono a dimenticare, chiamato impropriamente della Corriera della Morte avvenuto sulla strada Savona - Altare nel maggio del ’45. Ma sarebbe corretto chiamarla la strage dell’autocarro della morte. Più in là vedremo il perché. Nel 1956 la Corte di Appello di Genova – Sezione Istruttoria, aveva fatto una ricostruzione completa dei fatti, delle vittime, della dinamica e soprattutto delle responsabilità oggettive. Ecco la storia: il 25 aprile 1945, la disfatta delle forze armate nazifasciste era evidente, e imminente era pure l’occupazione di Savona da parte dei partigiani, in quella situazione di sfascio, quattro colonne di militari, di fascisti e di persone compromesse col regime in agonia, partirono velocemente da Savona per cercare scampo nel Nord della penisola. La prima di tali colonne era formata da truppe della wermarcht, la seconda da militari della Repubblica Sociale Italiana, la terza dalle cosiddette Brigate Nere, mentre dell’ultima facevano parte il personale, non militare, del Partito Fascista Repubblicano, coi rispettivi familiari ed altri cittadini che avevano collaborato con il fascismo repubblicano, quello di Salò. Le colonne in fuga, furono attaccate da terra e dall’aria e si scompaginarono lungo il cammino, parte di esse si arresero ai partigiani a Valenza Po. Dopo essere stati trattenuti alcuni giorni in tale località, i prigionieri vennero trasferiti ad Alessandria. Pare che nel corso della prigionia ad Alessandria, le prigioniere siano state stuprate dai partigiani in più occasioni. Avuta notizia della cattura, la Questura di Savona, diretta a quel tempo dal partigiano comunista Armando Botta, uomo dalla intransigente cultura operaia e poco incline alla umana pietà, diede ordine di tradurre da Alessandria a Savona un primo gruppo di prigionieri. A quei tempi, vero far west, i magistrati non avevano voce in capitolo. Solo chi era armato ed organizzato militarmente aveva potere di vita o di morte su tutti. E i partigiani rossi, possedevano l’organizzazione, le armi e soprattutto la voglia di usarle. La prima traduzione venne effettuata il 5 maggio 1945 con caposcorta Stefano Viglietti. Tra i deportati, uomini e donne, vi era il generale Farina ex comandante della mitica Brigata San Marco, spesso impiegata in funzione anti guerriglia. Per lui era già pronto il sicario partigiano, ma appena arrivato a Savona, fu prelevato da elementi armati anglo-americani, suscitando fortissimo malcontento negli ambienti partigiani. Se la scampò, almeno lui... La seconda traduzione, quella che avrebbe portato ad un bagno di sangue doveva comprendere 52 persone, fra le quali 13 donne, e venne disposta a distanza di pochi giorni dalla prima.Di essa furono incaricati, attenzione ai nomi accompagnati dai nomignoli di battaglia, Giorgio Massa (Tommy), Dalmazio Bisio (Bill), Ottavio Oggero (Penna Rossa) e Luigi Anselmo (Pue), oltre al Viglietti, Emilio Metri, Umberto Gagliardo ed Egidio Scacciotti.Tutti costoro, a capo dei quali era il Massa, che rivestiva il grado più elevato (Maresciallo ausiliario di P.S.), il 10 maggio si recarono ad Alessandria con una autocorriera condotta dagli autisti Giuseppe Pinerolo e Nicolò Amandini. Tutti i gradi di cui questi discutibili personaggi si fregiavano, non derivavano da concorsi, corsi, decreti ministeriali ma bensì la dubbia metodologia di conseguimento dei gradi era simile a quella su cui si baserà in futuro, Idi Amin Dada per autoproclamarsi generalissimo in Uganda. E visto ciò che accadde, questi personaggi non erano molto dissimili da quell’ex pugile antropofago divenuto dittatore in Africa.Quel giorno stesso, ottenuto dalla Questura di Alessandria l’ordine di scarcerazione dei 52 detenuti, il cosiddetto Maresciallo Massa li prelevò e li fece salire sull’autocorriera, che iniziò il viaggio di ritorno a Savona.Lungo il tragitto, ai reclusi prelevati ad Alessandria ne furono aggiunti altri, Antonio Branda fuggito da Savona in bicicletta e Giovanni Poggio, interprete al Comando tedesco, prelevato ad Acqui. Dopo il pernottamento nella città delle terme, la corriera proseguì il viaggio la mattina dell’11 maggio. Per il percorso Acqui/Altare sulla corriera viaggiò anche una staffetta non combattente, di soli 17 anni, della San Marco, Sergio Angelici, ma fu trattenuto nella caserma di Altare e, successivamente fucilato. La sua esecuzione, crudele ed ingiustificata, venne concretamente eseguita da due partigiani di nazionalità polacca, che si lordavano abitualmente le mani di sangue agli ordini dei loro colleghi italiani. A Piana Crixia, sosta e le donne detenute vennero condotte in un esercizio pubblico per mangiare. Durante la fermata Poggio, unicamente colpevole di essere un traduttore dal tedesco all’italiano e dall’italiano al tedesco, fu fatto scendere e venne ucciso nella Frazione Borgo con una pallottola alla nuca mentre era inginocchiato, a bordo strada, in attesa del colpo di grazia. Giunta ad Altare la corriera venne fatta fermare davanti alla Caserma dei Carabinieri, a quel tempo sede del presidio partigiano locale, comandato da Giovanni Panza (Boro). Qui tutti i detenuti, fatta eccezione delle donne del Branda e del giovane Armando Morello e del Colonnello Giacinto Bertolotto furono fatti scendere e portati nella caserma dove furono picchiati selvaggiamente con i bastoni.Qualche ora dopo quegli sventurati vennero fatti salire su un autocarro, il vero veicolo della morte e non come taluni dicono la corriera della morte, guidato personalmente dal Giovanni Panza, e condotti in località Cadibona, nei pressi della Galleria ferroviaria. Prima che il camion partisse, il Viglietti (che forse era il più umano della fosca brigata di assassini) fece scendere tre ragazzini, appartenuti alle formazioni fasciste, Arnaldo Messina, Adriano Menichelli e Romano Viale. Questi, accompagnati dal Viglietti, seguirono il camion, mentre l’autocorriera con le donne, il Bertolotto, il Branda ed il Merello veniva fatta proseguire anch’essa alla volta di Cadibona.Arrivati sul posto della mattanza, i prigionieri, 39 persone, che erano sul camion, vennero fatti scendere e trascinati su una piccola radura a lato della strada provinciale; dopo essere stati depredati di ogni avere: delle calzature e dei capi di vestiario, vennero, ad uno o due per volta, fatti scendere in un piccolo avvallamento del terreno ed uccisi a colpi di arma da fuoco. L’ufficiale della Guardia Nazionale Repubblicana Mario Molinari, approfittando della confusione, disperatamente, riuscì a fuggire di corsa, scalzo, senza scarpe e con solo la camicia, ma venne inseguito da un partigiano in bicicletta, fu ripreso nell’abitato di Cadibona, trascinato con violenza a calci e pugni, sul luogo del massacro e fucilato, negandogli per punizione anche l’assistenza religiosa, da lui richiesta in quanto credente. I poveri cadaveri, crivellati dalle raffiche degli sten e dei mab dei partigiani rossi, rimasero sul posto, in balia degli animali del bosco, sino alla sera del giorno successivo, finché alcuni partigiani e civili, abitanti di Cadibona, provvidero a trasportarli al cimitero del piccolo centro, dove in nottata, vennero seppelliti, in quattro strati sovrapposti, in un’unica grande fossa. Il Cappuccino Padre Giacomo (Eugenio Traversa) li riesumò nel ’49 e ne provvide sepoltura nel Cimitero delle Croci Bianche di Altare. Il 24 maggio 1945 il Viglietti, l’unico ad avere un minimo di coscienza e pietà umana, sospettato, ovviamente, dagli altri partigiani di essere stato una spia della Rsi, scomparve senza lasciare alcuna traccia, dopo aver detto alla moglie che si doveva incontrare in serata con suoi colleghi partigiani per effettuare un servizio. Non è difficile immaginare che il Viglietti, l’anello debole della catena, sia stato ammazzato per impedirgli di testimoniare sul massacro dei 39 poveri sventurati, inoltre nel corso degli interrogatori, i veri assassini, con una faccia di bronzo inqualificabile, gettarono tutta la colpa sul povero Viglietti, visto che non poteva essere presente per discolparsi. A tutt’oggi il suo corpo non è stato rinvenuto.

mercoledì 5 marzo 2008

La piccola Giuseppina uccisa per un tema che era piaciuto al Duce


Un altro grande articolo della redazione de "il Giornale"

Durante gli ultimi giorni di aprile 45, ricordati come le «radiose giornate», venne commesso in Savona un efferato delitto su una ragazzina di tredici anni; un omicidio brutale, ingiustificato!
Ho sempre sperato che la mia città trovasse l’onestà morale di ricordare quella bambina innocente (ma quali gravi reati può commettere una tredicenne?), non per giustizia, che ormai chi commise quell’atrocità deve rispondere a ben altro tribunale, ma per un sentimento di pietà; ed ora io avrei sepolto nella mia mente quei ricordi!
Ma ora, dopo oltre sessant’anni, non spero certamente più in una doverosa riabilitazione; e allora affido alla carta la memoria di un tragico evento che mi volle occasionale testimone di quel martirio.
Cercando Valentino
Fu proprio negli ultimi giorni di aprile, quando ormai il conflitto stava volgendo al termine in tutta l’Europa, che di primo mattino vidi arrivare a casa nostra Lina Cuttica alla ricerca di suo fratello Valentino, milite della Brigata Nera, di cui più nulla si sapeva; anzi lei sperava di trovarlo presso di noi.
C’era molta amicizia con tutta la famiglia Cuttica, amicizia nata qualche anno prima quando, ancora ragazzo, Valentino aveva lavorato nel negozio di ferramenta in cui mio padre era rappresentante. Ed io in particolare ero molto legato a Valentino per il suo carattere allegro e la sua indole aperta.
Ora quella gente, disperata per la mancanza di notizie, pensò di rivolgersi a mio padre, come unica persona in grado di cercare quel ragazzo o di sapere qualcosa sulla sua sorte; e lui, generoso e disponibile come fu sempre, con una buona dose di coraggio, decise di cominciare le ricerche là dove venivano fucilati o scaricati da vari luoghi dell’esecuzione, i soldati della Repubblica Sociale (e non solo loro) e cioè contro i muri esterni del cimitero di Zinola. Si parlava allora della «resa dei conti» e tutti avevano capito che mio padre nutriva poche speranze di trovare la Brigata Nera Valentino ancora vivo!
Volle accompagnarlo un boscaiolo che viveva solo in un piccolo alloggio nella nostra scala; era Venturino, un uomo forte e buono, reduce della «grande guerra», che più volte mi aveva affascinato con i racconti di tragiche battaglie dall’altopiano della Bainsizza al San Michele.
Allora era la bicicletta il mezzo più consueto per muoversi e, prima di partire, mio padre mi guardò dicendomi: «Sta vicino a Lina e a tua madre, noi faremo presto!». E soggiunse: «Non fare come il solito di testa tua e soprattutto non ci seguire!». Maledizione! Non avevo abbassato gli occhi in tempo e mio padre, come sempre quando mi guardava, aveva letto il mio pensiero!
Naturalmente la tentazione era troppo forte e, dopo aver aspettato qualche minuto che i due fossero ad una rispettosa distanza, inforcai la bicicletta di mia madre e li seguii.
Piccola martire sconosciuta
La strada correva veloce sotto le ruote della bici; non c’era certo il traffico di oggi, però una lunga fila di grossi autocarri «Dodge» con la bianca stella americana sul cofano e sulle portiere sostava sull’Aurelia, restringendo la carreggiata mentre numerose jeep (allora le chiamavano camionette) sfrecciavano continuamente nei due sensi; era la prima volta che vedevo i soldati americani bianchi e neri.
Ancora oggi mi chiedo come non ci rendessimo conto del pericolo che correvamo nella ricerca di un milite della brigata nera; in quei giorni bastava molto meno per essere ammazzati; ma forse i quotidiani bombardamenti aerei ci avevano abituati al pericolo!
E fu proprio entrando in Zinola che mi accorsi di aver perso di vista mio padre; aumentai l’andatura e, superata la chiesa ed il passaggio a livello, imboccai velocemente la semicurva che portava davanti al cimitero... e trovai mio padre che mi stava aspettando! Mi guardò con quell’espressione severa e triste che mi faceva più male di una sberla, poi disse: «Mi rendo conto che dovremo fare un lungo discorso noi due! Per adesso siediti lì e aspettaci!». Mi aveva indicato il muretto dell’argine lungo il torrente Quiliano e, mentre ubbidivo a quell’ordine perentorio, loro due si avviarono verso una lunga fila di cadaveri.
Ritengo che ancora una volta la curiosità fosse più forte dell’obbedienza e quindi lentamente, molto lentamente, mi avvicinai ai primi corpi di quella fila.
E proprio il primo era un cadavere di donna molto giovane; erano terribili le condizioni in cui l’avevano ridotta; evidentemente avevano infierito in maniera brutale su di lei, senza riuscire a cancellare la sua giovane età. Una mano pietosa aveva steso su di lei una sudicia coperta grigia che parzialmente la ricopriva dal collo alle ginocchia.
La guerra ci aveva costretto a vedere tanti cadaveri e, in verità, la morte concede ai morti una distesa serenità; ma lei, questa sconosciuta ragazza no! L’orrore era rimasto impresso sul suo viso, maschera di sangue, con un occhio bluastro, tumefatto e l’altro spalancato sull’inferno.
Ricordo che non riuscivo, come paralizzato, a staccarmi da quella povera disarticolata marionetta con un braccio irrigidito verso l’alto, come a proteggere la fronte, mentre un dito spezzato era piegato verso il dorso della mano. Mi riscosse la voce di mio padre, insolitamente dolce, che mi disse: «Hai visto abbastanza! Ora torniamo a casa!».
Nulla ricordo del viaggio di ritorno, soltanto la voce di mio padre che, rivolto al nostro compagno di viaggio, diceva, riferendosi evidentemente a Valentino: «Se non lo abbiamo trovato tra i morti, speriamo che sia ancora tra i vivi!».
È strano, ma quanto più si invecchia, più si fanno nitidi i ricordi degli anni lontani, mentre non si ricorda la cena della sera prima.
Giuseppina Ghersi
«Speriamo che sia ancora tra i vivi!» Aveva detto mio padre, alimentando una tenue speranza nei superstiti di quella famiglia, speranza che durò soltanto una paio di settimane, quando il massacro del colle di Cadibona, ricordato come «la corriera della morte», assieme ad altre trentasette, anche la vita di Valentino fu stroncata.
Passarono alcuni anni; io avevo cominciato a lavorare; un lavoro che mi piaceva, anche se a volte mi costringeva lontano da casa per qualche settimana; e fu durante una di queste mie assenze che morì una persona cara: Giobatta Vignolo, conosciuto come u «Russu», un vecchio contadino dal quale avevo imparato molte cose, soprattutto saggezza e pazienza!
Naturalmente, appena mi fu possibile, in occasione di un intervallo festivo, volli onorarne la memoria con una visita al cimitero di Zinola. Fu un lungo giro, o meglio un pellegrinaggio, poiché erano già tante le persone a me care che non erano più!
Quando mi avviai all’uscita, passando tra i due campi più prossimi al cancello, notai una coppia che stava sistemando dei fiori su una tomba, fiori che, in parte, coprivano la lapide, ma lasciavano intravedere le date: 1931-1945; mi tornò in mente l’aprile del 45 e... ma non c’erano dubbi: quella data e quell’età corrispondevano alla giovane sconosciuta!
Esitai alquanto, poi chiesi ai due: «È la ragazzina che hanno ucciso a fine aprile?». La donna mi guardò con diffidenza, poi, con voce ostile, mi chiese: «Perché?»; mi resi conto che stavo rivolgendomi ai genitori, persone profondamente ferite, che non avevano mai avuto giustizia (così aveva voluto il dominante terrore politico) ed io, un po’ a disagio, ma senza recedere dal mio proposito, risposi: «Se è lei, io l’ho vista laggiù contro il muro, come l’avevano lasciata dopo averla uccisa!». La dura corteccia di rancore si stava aprendo e, dopo qualche istante, mi dissero: «Vieni pure, noi siamo i genitori».
Ebbi così modo di leggere per intero il nome della lapide: Giuseppina Ghersi.
Parlai brevemente della coincidenza che mi aveva portato a Zinola in quei giorni e, dopo qualche frase di circostanza, mi allontanai. E fu a questo punto che scattò qualcosa, per cui tornai sui miei passi e chiesi se avessero una fotografia di Giuseppina; oggi penso che ciò fosse dovuto all’inconscia necessità di cancellare dal mio ricordo quel giovane volto martoriato. Mi parve di capire che la mia richiesta facesse loro piacere, perché la donna mi rispose: «Io qui con me non ho nulla, però se passi da casa nostra, certamente qualcosa posso trovare». Mi diedero l’indirizzo, ma poiché non potevo fissare il giorno a causa del mio lavoro, promisi che sarei passato da loro in un tardo pomeriggio festivo.
Dopo circa una settimana, come promesso, mi recai all’indirizzo avuto: via Tallone (il numero civico non lo ricordo), una via che oggi ha cambiato nome. Trovai, oltre ai genitori che già conoscevo, anche la zia di Pinuccia; mi accolsero con estrema cordialità, come fossi stato un vecchio amico e, se allora ne fui sorpreso, in seguito compresi l’isolamento che aveva circondato i signori Ghersi, considerati come appestati (e ancora peggio: fascisti) ed in malaugurato caso di incontro, i conoscenti e gli amici abbassavano gli occhi fingendo di non conoscerli! Questo era il clima di paura in quel tempo «radioso»!
La signora Laura raccontò l’allucinante calvario suo e di suo marito: furono dapprima arrestati con la cervellotica accusa di aver avuto rapporti commerciali con i nazi-fascisti (gestivano un banco di frutta e verdura al mercato); si volle inoltre che venisse rintracciata la figlia Giuseppina: «E che diamine! Vogliamo soltanto interrogarla! Che altro possiamo volere da una ragazzina?».
Rassicurati da quella infame menzogna, sempre accompagnati da uomini armati, trovarono Pinuccia in casa di una conoscente e per la giovane fu l’inizio della fine.
Con voce rotta dai singhiozzi la signora Laura continuò: «Io non rividi più mia figlia viva! Ci sequestrarono le chiavi di casa e, mentre noi eravamo in prigione, ci portarono via tutto! Per tutto il periodo della prigionia ogni giorno arrivavano, mi picchiavano, mi minacciavano senza una ragione...».
Il suo pianto accorato creò una pausa nel suo racconto, ed io posi la domanda chiave che era all’origine di quell’omicidio: «Ma perché fu uccisa?».
Mi risposero un po’ tutti, ovvero l’accusa ufficiale era spionaggio, accusa ridicola data l’età della vittima, però la zia azzardò un’altra ipotesi: Giuseppina aveva partecipato ad un concorso a tema per cui ricevette i complimenti dal Duce in persona; poteva essere questo, la sua condanna a morte!
Poi ancora disse che, con molto coraggio, era andata nelle scuole di Legino, diventate per l’occasione centro di raccolta, dove Giuseppina era «detenuta» ed in effetti riuscì a parlarle per pochi minuti: «Era ridotta in uno stato pietoso; mi disse di aver subìto ogni sorta di violenza... (a questo punto tacque per pudore su tante nefandezze che la decenza lascia solo intuire).
Ero sconcertato e, se non avessi visto con i miei occhi l’oggetto di quel martirio, non avrei creduto a tanta ferocia! Comunque osai ancora chiedere: «Nessuno ha assistito alla sua morte?». Mi rispose il signor Ghersi: «Ero io con lei; prima mi hanno preso a pugni e mi hanno colpito col calcio del fucile, perché volevo difendere mia figlia, poi hanno ucciso Pinuccia a calci!». Azzardai una domanda: «Ma non le avevano sparato?». Con voce alterata mi rispose: «Le spararono un colpo alla nuca, ma la mia bambina era morente, o forse già morta!».
Per ciò che ricordo, la mia visita volgeva al termine, ma al momento del commiato, ricordai qualcosa che mi aveva colpito e ancora chiesi: «Scusatemi, ma Pinuccia aveva forse un anello al dito?». Dopo un momento di perplessità la zia della bambina mi rispose: «Si certo! Un anellino d’oro, ma perché me lo chiedi?». Abbassai il capo e mormorai: «No niente, chiedevo così!».
Lasciai quella casa intrisa di dolore e, scendendo le scale, ebbi la sensazione che non avrei più rivisto nessuno di loro; e infatti fu proprio così!
Stava piovviginando quanto uscii in strada; avevo tanta rabbia dentro. Non potevo accettare l’ingiustizia, da qualunque parte provenisse, non potevo accettare l’idea che i criminali fossero da una sola parte; non riuscivo a capire perché, dopo aver eliminato la tirannide si sognasse alla guida del nostro paese, ancora tiranni ugualmente spietati e feroci...
Dal cielo buio una fine acquerugiola mi scorreva sul viso; meglio così per passare inosservato tra la gente!
Molto, molto tempo dopo lessi che forse un poeta, forse un disperato disse che gli occhi velati di lacrime vedono molto lontano...
Ma allora non potevo saperlo.