lunedì 26 maggio 2008

A.C. Fiorentina, tramvia e dintorni

Dato che sono un pò a corto di argomenti, o almeno non sono tanto ispirato, riparliamo di Firenze e degli scempi in essa perpretati... E' un vecchio articolo ma... Maremma com'è attuale!!!!!
Questa è la storia, vera e proprio per questo mai smentita è diventato proprietario della Fiorentina - di Fausto Carioti
Questa è la storia, vera e proprio per questo mai smentita, di come Diego Della Valle - l'imprenditore calzaturiero marchigiano la cui popolarità tra i suoi colleghi industriali si è potuta misurare concretamente lo scorso sabato 18 marzo nell'assise confindustriale di Vicenza - è diventato proprietario della Fiorentina, e del ruolo - come dire, non proprio secondario - svolto dal sindaco del capoluogo toscano Leonardo Domenici, diessino. Il tutto copiato e incollato da una vecchia inchiesta del sottoscritto pubblicata su Libero il 30 settembre del 2002, che mi sono guardato bene dall'aggiornare. All'epoca la Fiorentina si chiamava Florentia e militava nelle categorie inferiori. Tanta è stata la fretta, tanto il pathos in cui si è consumata la vicenda della Fiorentina, culminata col fallimento della società, che sono passati inavvertiti molti aspetti della curiosa storia che ha visto intrecciarsi le mosse di Leonardo Domenici, sindaco ds di Firenze e amico di Massimo D'Alema, con quelle di Diego Della Valle, proprietario della neonata Florentia e amico di D'Alema. Già a questo punto il lettore più acuto avrà intuito che il fabbricante marchigiano di scarpe non è proprio piovuto dal cielo sulla cupola del Brunelleschi, visto che mister Tod's e il primo cittadino fiorentino hanno in comune un referente di tale spessore. Niente di male, ovviamente: se il presidente del Consiglio ha il Milan e l'Extraterrestre Rivaldo, figuriamoci se un amico di D'Alema non può avere una squadra di C2 e Soldatino Di Livio. Ciò che interessa è che il sindaco si è arrampicato sugli specchi e ha fatto il salto mortale con doppio avvitamento, senza guardare in faccia a nessuno, pur di portare sul vassoio a Della Valle un investimento tagliato su misura. La Florentia è stata creata in fretta e furia il primo agosto da Domenici assieme al fido Eugenio Giani, esponente dello Sdi, assessore allo Sport e uomo vicino a Lamberto Dini. Domenici è il presidente della società, Giani fa il vice. I due, però, non intestano le quote della Florentia al Comune, ma a se stessi, fifty-fifty. E non agiscono come rappresentanti della città, ma come privati cittadini. Tanto che la prima sede della società è indicata nella casa del sindaco. Quattro giorni dopo Domenici, stavolta come sindaco di Firenze, emana un'ordinanza che impone di eseguire gli atti necessari per mettere a disposizione della società "Fiorentina 1926 Florentia" lo stadio denominato "Artemio Franchi", di proprietà del Comune, con effetto immediato. Solo in seguito, quando la Florentia sarà trasformata in società per azioni, le parti concorderanno le modalità per regolare il rapporto. Ricapitolando: il sindaco intesta a una società da lui stesso posseduta a titolo privato il diritto di usare lo stadio di Firenze in cambio di un compenso da definire a babbo morto. Poi dicono il conflitto d'interessi. L'Artemio Franchi costa al Comune, solo per il mantenimento, circa tre miliardi di lire l'anno. A questo punto qualche mattacchione potrebbe ipotizzare che l'originale delibera produca un danno erariale all'amministrazione. Di norma spetta al presidente del collegio dei revisori dei conti del municipio esercitare simili pignolerie. Ma coincidenza vuole che il signore in questione, Giancarlo Viccaro, sia stato messo da Domenici sulla poltrona di presidente del collegio sindacale della Florentia. Prima ancora di avere comprato la società - il contratto sarà firmato il giorno successivo - Della Valle ha avuto così la certezza di usare il Franchi. Senza nemmeno aver dovuto presentare un'offerta al Comune. Altro aspetto curioso è quello dell'azionariato popolare. Il 2 giugno Domenici annuncia che ai fiorentini sarà messo a disposizione il 20 per cento del capitale della nuova società. Il mattino dopo prende l'aereo privato di Della Valle che lo scodella vicino Cannes, nel cui lo porto lo attende lo yacht dell'industriale. Domenici torna a Firenze dopo aver raggiunto l'intesa, ma il 20 per cento è diventato il 19. La differenza? Il 20 per cento è la soglia minima per convocare l'assemblea degli azionisti e votare l'azione di responsabilità contro gli amministratori, insomma per contare qualcosa nella società. Così il premuroso sindaco risparmia a Della Valle pure la rottura dei focosi tifosi, pronti a trasformarsi in azionisti appena si presenterà l'occasione. La parola d'ordine è che "non esiste continuità". L'intera operazione è stata fatta per dimostrare che da un punto di vista legale la neonata Florentia non è l'erede della Fiorentina. Nel caso contrario, Della Valle si troverebbe in conto i debiti degli ex viola (110 milioni di euro al passivo) e tutto l'affare finirebbe a ramengo. Però l'operazione ha senso, anche commerciale, solo se la Florentia appare come l'erede diretta della Fiorentina. Ne è nato un fantasioso kamasutra giuridico e societario che ha prodotto risultati spesso esilaranti. Ad esempio: il 7 agosto, con uno strappo a tutte le regole, la Florentia è stata ammessa dalla Federazione a giocare in C2, cioè tra i professionisti, a patto che si assumesse i debiti che la vecchia Fiorentina aveva verso il Fondo di garanzia calciatori e allenatori. Della Valle ha accettato. Domanda: a che titolo lo ha fatto, se la sua società rifiuta di avere qualsiasi cosa a che vedere con quella che fu di Vittorio Cecchi Gori? Nella stessa delibera si legge che la società è ammessa al campionato della C2 in quanto "espressione della città di Firenze". Ma perché una società appena nata deve essere "espressione" della città quando a Firenze ci sono gli onesti pedatori della Rondinella che da oltre mezzo secolo si dannano l'anima nei campi fangosi delle serie cadette? Perché la Rondinella (che ora sogna di aggiudicarsi all'asta il giglio della Fiorentina fallita) deve giocare nello stadiuccio "delle due strade", mentre l'ultima arrivata si sistema al Franchi? E perché alla Florentia è stato fatto "il grande regalo" di giocare tra i professionisti, come lo ha chiamato il presidente della Lega di C, Mario Macalli, mentre Brindisi, Catania, Livorno, Ravenna e Taranto, nella stessa situazione, dovettero ripartire dalle categorie dilettantistiche? La risposta è una per tutte le domande: perché la Florentia è l'erede della Fiorentina. Basta non dirlo a voce alta. La commedia degli equivoci non risparmia il nome e la maglia della squadra. Che era nata come "Fiorentina 1926 Florentia", ma dopo poche settimane la parola "Fiorentina" è stata cancellata e il nome è cambiato in "Florentia Viola". Un blitz imposto dagli avvocati di Della Valle, preoccupati perché quella fastidiosa parolina rischiava di condurre alle porte della società i creditori della vecchia squadra. La Florentia, poi, è viola solo di nome. Scende in campo con un'imbarazzata maglia bianca, tanto è il terrore di essere scambiata dall'autorità giudiziaria per l'erede di quella di Cecchi Gori. L'intera vicenda, ovviamente ha i suoi bei risvolti pratici. Domenici si è inventato salvatore in extremis della Florentia (o come si chiama) ed è rimasto consigliere d'amministrazione della società di Della Valle, assieme a Giani, iniziando così con largo anticipo la prossima campagna elettorale. L'imprenditore, che nel frattempo è diventato presidente onorario della Florentia e ha messo i suoi uomini alla guida della società, in cordata con Luca Cordero di Montezemolo e Alessandro Benetton sta pensando di comprarsi dallo Stato l'Ente Tabacchi. Che ha nel gigantesco complesso immobiliare (540 mila metri quadrati) della ex Manifattura Tabacchi di Firenze, realizzato da Pier Luigi Nervi, uno dei bocconi più interessanti. E ci sono pochi dubbi che Della Valle, messa la sciarpa viola al collo, abbia già in mente come usarlo. Post scriptum. Scritto tutto questo, in bocca al lupo a Della Valle, alla Fiorentina-Florentia e ai suoi tifosi. Che arrivino presto in serie A. Perché senza i viola (viola, non bianchi) non è davvero la stessa cosa.

martedì 29 aprile 2008

Insieme...

Più volte su questo blog ho affrontato il tema dell'amore e del suo significato. Più volte sono stato blasfemo quando mi sono addentrato nello specifico, parlando apertamente di sesso. Di fronte ad un articolo così, vorrei chiedere scusa, perchè è una storia che ci fa capire veramente il significato della parola amore. Non perchè non abbia, o non conosca l'amore, ma perchè vorrei almeno provare un millesimo di quella passione che ha spinto Ugo ad invocare il ricongiungimento con la sua amata. Grazie ad Ugo ed Annalisa oggi ho imparato qualcosa, e la loro storia può essere raccontata al pari dei grandi poemi, scaturiti dalla fantasia degli scrittori... Ma solo il più grande degli scrittori ha permesso che questa storia fosse vita...
di Cristiano Gatti
Chi ama davvero non vorrebbe vivere nemmeno un attimo più dell’amato. Per Ugo e Annalisa, che si sono amati davvero, soltanto una mezza giornata di distacco. Prima se n’è andato lui, intorno alle otto del mattino, quasi in avanscoperta, quasi a preparare il nuovo nido. La sera, quando già la solitudine sembrava diventarle insopportabile, lei l’ha seguito e l’ha raggiunto. Di nuovo insieme, come sempre. Stavolta davvero per sempre. Chi ama davvero vorrebbe vivere, gioire, soffrire e poi persino morire al fianco dell’amato. Che parole melense, che pensieri da Bacio Perugina: chi non ama davvero, certo ci sghignazzerà. Ecco, la storia di Ugo e Annalisa non è cosa per quest’ultimo genere di umanità, dato il misterioso e indecifrabile alone di travolgente poesia che l’accompagna dall’inizio alla fine.È già svelata, questa fine: un funerale senza troppi orpelli nella chiesa parrocchiale di Ponteranica, il loro paese, alle porte di Bergamo. Anche il funerale come tutto il resto, riassunto nella parola di sempre: insieme. Una bara vicina all’altra, molto vicina, davanti al prete, che li riconsegna nelle mani di Dio, perché li abbia in gloria. Nei primi banchi, sostenuti dal calore di una folla d’amici, tre figlie e un nipotino, ragioni stesse del loro matrimonio davvero unico e davvero indissolubile. Uniti finché morte non vi separi. Se l’erano giurato, sempre davanti a un prete, nel 1974. Aprile anche allora, il giorno venti. Già quella volta sembra a tutti che questo legame abbia qualcosa di particolare. Di segnato e di predestinato. I due sposi hanno la stessa età, classe 1947, ma anche natali praticamente comuni: lui il 23 luglio, lei il 25. Chi ama davvero, evidentemente, non vuole vivere un attimo più dell’amato neppure all’inizio. Anche se ancora non lo conosce. Tra Ugo e Annalisa, solo due giorni di solitudine. Il loro destino li osserva dall’alto, lasciando che crescano ciascuno nel proprio paese, a qualche chilometro di distanza. Ugo è di Ponteranica, Annalisa di Darfo Boario, in Valcamonica. L’incontro che svela i disegni superiori è programmato per quando sono nell’età degli amori. Ugo è un suonatore di basso, fa spettacolo nei locali del Bergamasco e del Bresciano. Un giorno sale con la sua band a Boario, proprio lì dove l’attende l’appuntamento della vita. Ad accoglierlo, tra il pubblico, la ragazza carina e romantica che sarà per sempre la sua.Da quel giorno, insieme. È la parola magica che li accompagnerà lungo i sentieri del domani. Qualche tempo dopo si presentano insieme all’altare. Quindi, insieme mettono in cantiere tutti i progetti che due metà della stessa anima possono immaginare. Ugo è spirito d’artista. Esprime la sua inguaribile creatività mandando avanti locali pubblici. Oltre alla musica, ama dipingere. I suoi quadri girano per mostre. Lei è di temperamento diverso, trova soddisfazione nelle cose di casa, ma soprattutto nelle cose di mamma. Tre figlie arrivano ad animare l’atmosfera lieta di una famiglia riuscita. Tutti i giorni, tra le soddisfazioni e le difficoltà, Ugo e Annalisa concretamente scoprono quanto giusto e vero sia il famoso giuramento: uniti nella buona e nella cattiva sorte, insieme, sempre insieme, finché morte non vi separi... Tre anni fa nasce Tommaso, il nipotino che sconvolge il torpore dell’età che avanza. Avviandosi al bel traguardo dei sessant’anni, Ugo e Annalisa hanno tutto quello che serve per sorridere. Con questo stato d’animo accolgono i primi tramonti di quel caldo autunno riservato ai nonni felici. Ma sta scritto nella loro storia incredibile che tutto debbano affrontare insieme, anche la cattiva sorte. La prima ad ammalarsi di quel male spietato è Annalisa. Ugo le sta vicino, se possibile la ama più di prima. Ma evidentemente deve sembrargli ancora niente. S’era detto insieme. Sempre, per qualunque cosa. Come fosse giusto e ineluttabile, anch’egli si ammala. Dello stesso male feroce. L’ultimo anno li vede affiancati nella stessa battaglia, contro lo stesso nemico cinico e impietoso. Come sempre, si aiutano nella sofferenza fisica e nel tormento dell’anima. Tutti e due religiosi, pregano lo stesso Dio, perché almeno conceda consolazione. Nel segreto dei propri pensieri, certamente coltivano il grande sogno di tutti gli amori sinceri e generosi: chi ama davvero non vorrebbe vivere nemmeno un attimo più dell’amato. Nessuno sente la loro voce, ma certamente nel Cielo risuona lieve la tenerezza della loro supplica: Signore, ti prego, prendimi nella stessa ora. Non lasciarmi qui un minuto di più. Insieme, ancora insieme, fino all’ultimo respiro. Sessant’anni dopo averli avviati insieme alla vita, trentaquattro anni dopo averli messi insieme nella stessa casa, il Creatore ascolta la preghiera e insieme li richiama. Lui si avvia qualche ora prima, di mattina presto, quasi a cercare l’angolo giusto di Paradiso, dove accoglierla di nuovo come una regina. Lei lo raggiunge quand’è sera, evitando di affrontare da sola il buio della notte. Adesso stanno di nuovo insieme, in una luce bellissima. Dove non c’è morte che li separi.

lunedì 28 aprile 2008

Il grillo sparlante. L'antipolitica di Beppe Grillo, business da 4 milioni

Tanto per capire da che pulpito vien la predica, Filippo Facci dedica 4 editoriali (anche troppi) su Grillo e il suo fenomeno... Anche il più grande dispensatore di vaffa meriterebbe un vaffa, non credete?
di Filippo Facci
La vera storia di Grillo. Il suo sito è classificato come "commerciale". Le bugie del comico su macchine e barche. Ogni volta ha tentato di bloccare i libri che parlavano della sua vita
Questa puntata è dedicata alla decodificazione di alcune balle su Beppe Grillo e di Beppe Grillo. Anzitutto delle precisazioni. Come visto, Giuseppe Piero Grillo non ha solo fruito due volte di un condono fiscale tombale, ma anche di un condono edilizio nella sua villa di Sant’Ilario. Come visto, poi, la pretesa di impedire la candidatura di chi abbia avuto delle condanne penali in giudicato (regola che non esiste in nessun Paese del mondo) precluderebbe ogni candidatura di Beppe Grillo medesimo, che è pregiudicato per omicidio colposo plurimo. A questa condanna, raccontata nella puntata di ieri, va aggiunto un patteggiamento per aver definito Rita Levi Montalcini «vecchia p...» in un suo spettacolo del 2001: dovette pagare 8400 euro e la causa civile è ancora in corso, anche perché Grillo sostenne che la scienziata ottenne il Nobel grazie a un’azienda farmaceutica. A proposito dei referendum promossi dalle piazze grillesche, invece, vediamo che anche il promotore Antonio Di Pietro invoca che un parlamentare non resti tale per più di due mandati: ma non ha detto che lui, di mandati, ne ha già collezionati cinque, per un totale di anni 11. Anche Marco Travaglio, venerdì, ha tuonato contro i finanziamenti pubblici all’editoria: ma non ha detto che il suo giornale, l’Unità, percepisce più contributi di tutti, e non «come tutti i giornali italiani» (parole sue, rivolte alla folla beona del V-day), bensì nella modalità assai più danarosa riservata alla stampa politica; dalla Rai all’Unità, insomma, Travaglio è pagato coi soldi dei contribuenti. Per chiudere con la manifestazione di venerdì: Piazza San Carlo è grande 168 per 76 metri, dunque 12.768 metri quadri che moltiplicati per 3 (tre persone ogni metro, e sono già tante) dà 38.304 persone totali, non 120mila come dal blog di Grillo: «Eravamo in 120.000. Chi era presente lo sa e anche chi può informarsi in Rete».
Il Grillo censore
Grillo non a caso riconosce solo la rete, per quanto la cosa, nel tempo, si sia configurata come un’ossessiva paura del confronto. Interviste non ne rilascia, ed è nota l’esperienza del giornalista Sandro Gilioli: nel gennaio scorso si mise d’accordo col comico per un’intervista di quattro pagine, ma poi si vide respingere le domande perché definite «offensive e indegne»: tuttavia, una volta rese pubbliche, si sono rivelate del tutto ordinarie. Poi c’è il capitolo libri: Grillo, semplicemente, è solito bloccare qualsiasi volume che lo riguardi. Nel 2003 fece diffidare e bloccare «Grillo da ridere» di Kaos edizioni, biografia a lui favorevole: la scusa fu che conteneva un’eccedenza di testi dei suoi spettacoli. Nel 2007 invece ha diffidato e bloccato «Chi ha paura di Beppe Grillo?» di Emilio Targia, Edoardo Fleischner e Federica De Maria, scritto per Longanesi: tre studiosi che hanno seguito Grillo per anni; aggiornato due volte, Longanesi infine ha lasciato perdere per non avere grane. Il libro, dopo che per analoghi motivi era stato rifiutato da ben 23 editori, è uscito infine per Selene edizioni giusto in questi giorni. La biografia «Beppe Grillo» uscita infine per Aliberti, e scritta da Paolo Crecchi e Giorgio Rinaldi, è nelle librerie dal novembre scorso nonostante le minacce fatte recapitare da Grillo, ai due autori, a mezzo del giornalista della Stampa Ferruccio Sansa, figlio del suo dirimpettaio Adriano. Tutte le cause, infine, per risparmiare, sono promosse dallo studio legale del figlio di suo fratello Andrea. Va anche detto che l’atteggiamento di Grillo, casta di se stesso, probabilmente non è solo ascrivibile alla preservazione di un culto della propria personalità: semplicemente, vuole essere l’unico a guadagnare col proprio nome. Il blog che non lo è Sotto questo profilo, la definizione corretta del suo celebre blog, aperto il 26 gennaio 2006, è «sito commerciale»: come tale è infatti classificato. I numeri parlano chiaro: un anno prima del blog, nel 2004, Grillo ha fatturato 2.133.720 euro; nel 2006, due anni dopo, ne ha fatturati 4.272.591. La politica del Vaffanculo sta rendendo bene. Nel citato «Chi ha paura di Beppe Grillo», i tre autori hanno monitorato il sito per tre anni osservando come Grillo, spesso con la scusa della battaglia per la democrazia e il finanziamento dei V-day, venda ogni genere di gadget: video del V-day, dvd dello spettacolo Reset, libro «Tutte le battaglie di Grillo», eccetera. Anche i circolini politici rendono: chi vuole aprire un fan club deve pagare 19 dollari per un mese (dollari, perché la piattaforma è negli Usa) che sono scontati a 72 per chi prenota un semestre. Per ora i circoli sono poco più di 500, ed è già un bel rendere.
Il moralista
Solo alla rete e a Grillo, dunque, dovremmo affidare le verità su Grillo. Tipo questa: «Ho avuto una Ferrari, ma l’ho venduta». Fine. Salvo scoprire, certo non sulla rete, che di Ferrari ne ha avute due, più Porsche, Maserati, Chevrolet Blazer, eccetera. Oppure, sempre parole sue: «Ho due case, una a Genova e una in Toscana». Fine. Salvo scoprire, certo non sulla rete, che una in effetti è a Bibbona, Livorno, 380 metri quadri e 5.600 metri quadri di terreno; ma risulta intestato a lui anche l’appartamento di Rimini dove stava con l’ex moglie, senza contare che la Gestimar, la sua società immobiliare gestita dal fratello, possiede i tre appartamenti a Marinelledda, una villa a Porto Cervo, due locali più garage a Genova Nervi e infine un esercizio commerciale a Caselle, oltreché un garage in Val d’Aosta. Oppure, ancora: «Ho avuto la barca, ma l’ho venduta». Salvo scoprire, certo non sulla rete, che di barche ne avute diverse; una forse l’avrà anche venduta, ma il panfilo «Jao II» di 12 metri, in realtà, risulta affondato alla Maddalena il 5 agosto 1997. C’erano a bordo anche Corrado Tedeschi (che oggi odia Grillo pubblicamente) con la sua compagna Corinne. La barca finì su una secca peraltro segnalatissima, e fu salvato dalla barca dei Rusconi, gli editori. Grillo fu indagato per naufragio colposo, procedimento archiviato. Un’altra volta, il 29 maggio 2001, riuscì nell’impresa si insabbiare un gommone nel profondissimo mar Ligure, alla foce del Magra: con lui c’era Gino Paoli, fu una giornata senza fine. Del condono tombale chiesto e ottenuto per due anni e per due volte dalla citata Gestimar, dal 1997 al 2002, diamo conto velocemente. Fu certo lecito, ma non obbligatorio. Il problema è che era esattamente il genere di condono contro il quale Grillo si era scagliato più volte, e in particolare con una lettera indirizzata al direttore di Repubblica risalente al giugno 2004. Se vorrà ne riparlerà Grillo medesimo, tra un vaffanculo e l’altro.
Il nuovo Coluche Difficile scacciare l’idea che Grillo non sogni di potersi ispirare un giorno a Michel Coluche, l’attore e comico francese che peraltro ebbe l’onore di conoscere sul set del film «Scemo di guerra» di Dino Risi: «Beppe si ingelosì molto del rapporto speciale che avevo con Michel», ha detto il regista. Coluche, idolo del box office transalpino, dai suoi spettacoli metteva alla gogna i politici e un bel giorno annunciò la candidatura all’Eliseo. Si ritirò solo all’ultimo, ma i sondaggi parevano garantirgli una messe incredibile di voti.Forse qualcuno avrebbe potuto già insospettirsi dall’esordio cinematografico di Grillo: «Cercasi Gesù», dove appunto interpretava un Cristo moderno anticipando la sindrome «Joan Lui» dell’altro aspirante santone, Adriano Celentano. Anche la discesa in campo di Silvio Berlusconi nel 1994, e relativo successo, deve averlo alquanto impressionato. Come rilevato da Libero il 3 ottobre scorso, Grillo mise il suo primo bollino elettorale proprio su Berlusconi: «Sono da mandare via, da mandare via questa gente qua, da votare gli imprenditori, ecco perché sono contento che è venuto fuori Berlusconi: lo voglio andare a votare». E qui siamo appunto nel 1994. Nella primavera successiva, vediamo, Grillo modificò il suo giudizio e lo spruzzò di venature appena megalomani: «Candidarmi sarebbe un gioco da ragazzi, prenderei il triplo del Berlusca» disse a Curzio Maltese su Repubblica. «Mi presento in tv e dico: datemi il vostro voto che ci divertiamo, sistemo due o tre cose. Un plebiscito». Poi, nel 2003, la svolta: «Per arrivare a Berlusconi dobbiamo essere diventati parecchio stupidi». Già covava. Ma una vera discesa in campo, Giuseppe Piero Grillo, non l’ha ancora fatta. Deve ancora discuterne col commercialista.

sabato 26 aprile 2008

Quel viaggio dell'orrore (1945)

Ancora un altro viaggio nella nostra storia, tra vincitori e vinti.
Nel maggio 1945 quaranta persone cercarono di fuggire da Savona: gli uomini della Resistenza li catturarono, violentarono le donne e li uccisero tutti
Esiste un massacro, che tutti tendono a dimenticare, chiamato impropriamente della Corriera della Morte avvenuto sulla strada Savona - Altare nel maggio del ’45. Ma sarebbe corretto chiamarla la strage dell’autocarro della morte. Più in là vedremo il perché. Nel 1956 la Corte di Appello di Genova – Sezione Istruttoria, aveva fatto una ricostruzione completa dei fatti, delle vittime, della dinamica e soprattutto delle responsabilità oggettive. Ecco la storia: il 25 aprile 1945, la disfatta delle forze armate nazifasciste era evidente, e imminente era pure l’occupazione di Savona da parte dei partigiani, in quella situazione di sfascio, quattro colonne di militari, di fascisti e di persone compromesse col regime in agonia, partirono velocemente da Savona per cercare scampo nel Nord della penisola. La prima di tali colonne era formata da truppe della wermarcht, la seconda da militari della Repubblica Sociale Italiana, la terza dalle cosiddette Brigate Nere, mentre dell’ultima facevano parte il personale, non militare, del Partito Fascista Repubblicano, coi rispettivi familiari ed altri cittadini che avevano collaborato con il fascismo repubblicano, quello di Salò. Le colonne in fuga, furono attaccate da terra e dall’aria e si scompaginarono lungo il cammino, parte di esse si arresero ai partigiani a Valenza Po. Dopo essere stati trattenuti alcuni giorni in tale località, i prigionieri vennero trasferiti ad Alessandria. Pare che nel corso della prigionia ad Alessandria, le prigioniere siano state stuprate dai partigiani in più occasioni. Avuta notizia della cattura, la Questura di Savona, diretta a quel tempo dal partigiano comunista Armando Botta, uomo dalla intransigente cultura operaia e poco incline alla umana pietà, diede ordine di tradurre da Alessandria a Savona un primo gruppo di prigionieri. A quei tempi, vero far west, i magistrati non avevano voce in capitolo. Solo chi era armato ed organizzato militarmente aveva potere di vita o di morte su tutti. E i partigiani rossi, possedevano l’organizzazione, le armi e soprattutto la voglia di usarle. La prima traduzione venne effettuata il 5 maggio 1945 con caposcorta Stefano Viglietti. Tra i deportati, uomini e donne, vi era il generale Farina ex comandante della mitica Brigata San Marco, spesso impiegata in funzione anti guerriglia. Per lui era già pronto il sicario partigiano, ma appena arrivato a Savona, fu prelevato da elementi armati anglo-americani, suscitando fortissimo malcontento negli ambienti partigiani. Se la scampò, almeno lui... La seconda traduzione, quella che avrebbe portato ad un bagno di sangue doveva comprendere 52 persone, fra le quali 13 donne, e venne disposta a distanza di pochi giorni dalla prima.Di essa furono incaricati, attenzione ai nomi accompagnati dai nomignoli di battaglia, Giorgio Massa (Tommy), Dalmazio Bisio (Bill), Ottavio Oggero (Penna Rossa) e Luigi Anselmo (Pue), oltre al Viglietti, Emilio Metri, Umberto Gagliardo ed Egidio Scacciotti.Tutti costoro, a capo dei quali era il Massa, che rivestiva il grado più elevato (Maresciallo ausiliario di P.S.), il 10 maggio si recarono ad Alessandria con una autocorriera condotta dagli autisti Giuseppe Pinerolo e Nicolò Amandini. Tutti i gradi di cui questi discutibili personaggi si fregiavano, non derivavano da concorsi, corsi, decreti ministeriali ma bensì la dubbia metodologia di conseguimento dei gradi era simile a quella su cui si baserà in futuro, Idi Amin Dada per autoproclamarsi generalissimo in Uganda. E visto ciò che accadde, questi personaggi non erano molto dissimili da quell’ex pugile antropofago divenuto dittatore in Africa.Quel giorno stesso, ottenuto dalla Questura di Alessandria l’ordine di scarcerazione dei 52 detenuti, il cosiddetto Maresciallo Massa li prelevò e li fece salire sull’autocorriera, che iniziò il viaggio di ritorno a Savona.Lungo il tragitto, ai reclusi prelevati ad Alessandria ne furono aggiunti altri, Antonio Branda fuggito da Savona in bicicletta e Giovanni Poggio, interprete al Comando tedesco, prelevato ad Acqui. Dopo il pernottamento nella città delle terme, la corriera proseguì il viaggio la mattina dell’11 maggio. Per il percorso Acqui/Altare sulla corriera viaggiò anche una staffetta non combattente, di soli 17 anni, della San Marco, Sergio Angelici, ma fu trattenuto nella caserma di Altare e, successivamente fucilato. La sua esecuzione, crudele ed ingiustificata, venne concretamente eseguita da due partigiani di nazionalità polacca, che si lordavano abitualmente le mani di sangue agli ordini dei loro colleghi italiani. A Piana Crixia, sosta e le donne detenute vennero condotte in un esercizio pubblico per mangiare. Durante la fermata Poggio, unicamente colpevole di essere un traduttore dal tedesco all’italiano e dall’italiano al tedesco, fu fatto scendere e venne ucciso nella Frazione Borgo con una pallottola alla nuca mentre era inginocchiato, a bordo strada, in attesa del colpo di grazia. Giunta ad Altare la corriera venne fatta fermare davanti alla Caserma dei Carabinieri, a quel tempo sede del presidio partigiano locale, comandato da Giovanni Panza (Boro). Qui tutti i detenuti, fatta eccezione delle donne del Branda e del giovane Armando Morello e del Colonnello Giacinto Bertolotto furono fatti scendere e portati nella caserma dove furono picchiati selvaggiamente con i bastoni.Qualche ora dopo quegli sventurati vennero fatti salire su un autocarro, il vero veicolo della morte e non come taluni dicono la corriera della morte, guidato personalmente dal Giovanni Panza, e condotti in località Cadibona, nei pressi della Galleria ferroviaria. Prima che il camion partisse, il Viglietti (che forse era il più umano della fosca brigata di assassini) fece scendere tre ragazzini, appartenuti alle formazioni fasciste, Arnaldo Messina, Adriano Menichelli e Romano Viale. Questi, accompagnati dal Viglietti, seguirono il camion, mentre l’autocorriera con le donne, il Bertolotto, il Branda ed il Merello veniva fatta proseguire anch’essa alla volta di Cadibona.Arrivati sul posto della mattanza, i prigionieri, 39 persone, che erano sul camion, vennero fatti scendere e trascinati su una piccola radura a lato della strada provinciale; dopo essere stati depredati di ogni avere: delle calzature e dei capi di vestiario, vennero, ad uno o due per volta, fatti scendere in un piccolo avvallamento del terreno ed uccisi a colpi di arma da fuoco. L’ufficiale della Guardia Nazionale Repubblicana Mario Molinari, approfittando della confusione, disperatamente, riuscì a fuggire di corsa, scalzo, senza scarpe e con solo la camicia, ma venne inseguito da un partigiano in bicicletta, fu ripreso nell’abitato di Cadibona, trascinato con violenza a calci e pugni, sul luogo del massacro e fucilato, negandogli per punizione anche l’assistenza religiosa, da lui richiesta in quanto credente. I poveri cadaveri, crivellati dalle raffiche degli sten e dei mab dei partigiani rossi, rimasero sul posto, in balia degli animali del bosco, sino alla sera del giorno successivo, finché alcuni partigiani e civili, abitanti di Cadibona, provvidero a trasportarli al cimitero del piccolo centro, dove in nottata, vennero seppelliti, in quattro strati sovrapposti, in un’unica grande fossa. Il Cappuccino Padre Giacomo (Eugenio Traversa) li riesumò nel ’49 e ne provvide sepoltura nel Cimitero delle Croci Bianche di Altare. Il 24 maggio 1945 il Viglietti, l’unico ad avere un minimo di coscienza e pietà umana, sospettato, ovviamente, dagli altri partigiani di essere stato una spia della Rsi, scomparve senza lasciare alcuna traccia, dopo aver detto alla moglie che si doveva incontrare in serata con suoi colleghi partigiani per effettuare un servizio. Non è difficile immaginare che il Viglietti, l’anello debole della catena, sia stato ammazzato per impedirgli di testimoniare sul massacro dei 39 poveri sventurati, inoltre nel corso degli interrogatori, i veri assassini, con una faccia di bronzo inqualificabile, gettarono tutta la colpa sul povero Viglietti, visto che non poteva essere presente per discolparsi. A tutt’oggi il suo corpo non è stato rinvenuto.

martedì 15 aprile 2008

E ora fuori i secondi!!!


E’ finita!! Come quando eravamo militari, il grido alla fine della leva riecheggiava come una nenia: è finita!! Due anni del governo più disastroso della storia cancellati da un colpo di spugna, una spugna azzurra e verde, una spugna che sulla carta sa di nuovo. Mieli ieri sera ha detto che da oggi inizia la vera seconda repubblica, inizia il nuovo corso che tutti attribuivano al 1994, ma che in quindici anni di tentennamenti non è mai partito. Il nuovo corso ha il volto del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, della faccia un po’ sofferente del grande Umberto Bossi, del politico Gianfranco Fini, e di un riflessivo Giulio Tremonti. Adesso fuori i secondi, via gli arcobaleni, via le fiamme, via i casini (ne rimane solo uno) via i moscerini dal parlamento. Solo sei i partiti entrati nell’arena della politica e una maggioranza indipendente dai dinosauri a vita, ai quali consiglio una bella stazione termale austriaca.
Fuori gli attributi Sig.Presidente del Consiglio, ci aspettiamo da lei quello che ha fatto con le sue imprese, quello che lei ha promesso. Ci aspettiamo di poter tornare a sventolare il tricolore, ci aspettiamo di camminare sicuri per le vie del centro, ci aspettiamo che i napoletani vadano a sciare in montagna e non sui rifiuti, ci aspettiamo di volare in aeroplani con il tricolore sulla coda.
E’ finita ed e cominciata una nuova era. Questo sta solo a voi, onorevoli… Guadagnatevi questo titolo e onorate chi ha creduto in voi ancora una volta. Il primo vagito dell’esecutivo deve essere un segnale di speranza, far tirare in naso fuori di casa agli italiani, portarli per la strada a vivere le città, le campagne, le feste (non dell’Unità), ma delle nostre tradizioni, dal nord al sud. Vogliamo che l’industria italiana e gli operai che ci lavorano, torni a produrre a pieno ritmo, vogliamo scritto Made in Italy, fatto in Italia, dalle mani di un artigiano italiano, che mangia spaghetti e beve del buon vino rosso quando torna a casa, che bestemmi pure se le cose non vanno bene, ma che bestemmi un Dio con il quale siamo cresciuti. L’ospitalità allo straniero è sempre stata il nostro forte, ma che sia come alla corte di Lorenzo il Magnifico, ospitare chi in Italia porta conoscenza, ordine, arte, cultura. Di problemi ne abbiamo già tanti, non vogliamo quelli degli altri… Avete chiesto all’Italia di rialzarsi, l’italiani hanno chiesto di rialzarsi, è suonata la sveglia è ora di lavorare!!!

giovedì 10 aprile 2008

Liberi di delinquere e per non dimenticare

Bisognerebbe ci fosse un archivio delle cose dette e scritte in ogni circostanza, sopratutto quando si fanno promesse. Il problema di noi italiani è che abbiamo la memoria corta e i politici lo sanno benissimo. Il fardello di chi si appresta a governare è grosso, e bisognerà fare delle scelte belle o brutte che esse siano. Altrimenti regnerà l'anarchia e come si sa nel torbo si pesca meglio...
Massimo de’ Manzoni
Era stato arrestato o denunciato 20 volte per rapina, spaccio, violenza carnale, furto, rissa. Aveva già sulle spalle non uno ma due decreti di espulsione anche nelle occasioni in cui, nel 2006 e nel 2007, era finito in carcere. Eppure nessuno lo ha accompagnato alla frontiera. L’hanno lasciato qui, libero di compiere la sua ennesima impresa criminale: sodomizzare davanti a tutti un adolescente disabile nei pressi della Stazione Centrale di Milano.Atroce. Ma la vera tragedia è che quella dell’algerino Yousef Maazi non è l’eccezione, bensì la regola. Come lui, i due albanesi che nel settembre scorso torturarono e massacrarono con una sbarra di ferro una coppia di coniugi nel Trevigiano. Come lui i due marocchini che violentarono e rapinarono due ragazzi napoletani in aprile. Come lui centinaia di altri clandestini dalla riconosciuta vocazione a delinquere, colpiti da espulsione ma colpevolmente lasciati liberi di restare in Italia a picchiare, rapinare, stuprare, uccidere. Talvolta col «timbro» della legge, come quel magrebino che un magistrato di Reggio Emilia ha rimesso in libertà perché l’ordine di espulsione firmato dal questore non era scritto in arabo. Talvolta scivolando tra le pieghe della legge, come il romeno condannato a sette anni per sequestro di persona e violenza carnale e tenuto in galera appena due giorni (giorni!) per motivi tuttora misteriosi. Sempre, comunque, protetti da una cultura ammantata di buonismo, di perdonismo, di finto solidarismo con la quale larga parte della sinistra e una fetta del mondo cattolico hanno inquinato il modo di affrontare la questione immigrazione nel nostro Paese. Una cultura per la quale essere clandestini, ossia fuorilegge, è un’attenuante, non un’aggravante. Una cultura che ha prodotto sentenze come quella del gennaio 2007, quando a un assassino romeno che aveva tranquillamente assistito «per almeno un’ora» all’agonia della sua vittima senza muovere un muscolo è stata dimezzata la pena (da 30 a 17 anni: tradotto, vuol dire che tra poco ce lo ritroviamo ancora per le strade) perché «viveva in uno stato di arretratezza culturale». E poi dicono che non ci sono temi che appassionino la gente in questa campagna elettorale.

mercoledì 9 aprile 2008

Storia manipolata

Mi è capitato più volte, dopo la fine del liceo, di rileggere la storia da altre fonti, di sentirla da chi l'ha vissuta, parenti, amici, e non ho mai creduto più di tanto a quello che avevo studiato. Giordano Bruno Guerri, con parole da giornalista, e da persona che si informa e indaga, ha messo nero su bianco questo concetto, e nel mio piccolo blog, voglio renderne merito.
di Giordano Bruno Guerri
Il problema dei libri di storia usati nelle scuole è serio e va anche oltre la denuncia fatta da Marcello Dell’Utri. Non si tratta soltanto di aggiornare la spiegazione della Resistenza, sulla base delle più recenti acquisizioni storiografiche, che ne evidenziano le ombre. Per oltre mezzo secolo, in Italia e soprattutto nelle scuole, non si è potuto neanche parlare di “guerra civile”, mettendo tutti i buoni da una parte e tutti i cattivi dall’altra, nel più classico modello della storia scritta dai vincitori. Per i ragazzi di oggi, si tratta di un periodo lontano quanto Carlo Magno, e per formarli e informarli bisognerà pur spiegare loro che crudeltà e efferatezze ci furono da entrambe le parti, e che gran parte dei partigiani, oltre a combattere giustamente contro il fascismo, volevano sostituirlo con un’altra dittatura, di segno opposto. Ma il problema è più vasto perché anche la storia del fascismo - durato dieci volte più della Resistenza, e che coinvolse tutti gli italiani – viene presentata ai ragazzi secondo stereotipi ai quali ha rinunciato pure la migliore storiografia di sinistra. I testi scolastici, del resto, rispecchiano un Paese dove esistono decine di Istituti per lo studio della Resistenza e nessuno per lo studio del fascismo. Un assurdo. Intendiamoci, è giustissimo, doveroso, insegnare che il regime aveva l’immensa, inaccettabile colpa di privare gli italiani della libertà, nei modi che sappiamo e che vengono ampiamente illustrati. Ma bisognerà pur spiegare perché la maggior parte degli stessi italiani dettero il loro consenso a quel regime, che non si limitò soltanto a privarli della libertà e a fare guerre. Il problema è più vasto, anche perché non riguarda soltanto i libri di storia, ma pure quelli di letteratura. Personaggi come Marinetti e d’Annunzio, per dire i casi più clamorosi, vengono messi in secondo piano, o direttamente in cattiva luce, per le loro compromissioni con il fascismo. Dando dunque per scontato che ciò infici la loro opera creativa: un altro falso. Ciò detto, non credo che il problema possa essere risolto con una Commissione, che risistemi le cose dall’alto di un ministero. Il problema va affrontato culturalmente, riprendendo – per le scuole e nelle scuole - un dibattito sociale e storiografico finora non arrivato ai libri di testo, ai loro autori, agli insegnanti. Sarà un lavoro più lungo e faticoso di quello di una Commissione, ma più incisivo e, soprattutto, più pedagogico.
www.giordanobrunoguerri.it

Io e Rocco


Ho conosciuto Rocco nel 1987, abbiamo girato una puntata a M'ama non m'ama, e non mi sarei mai aspettato di trovarmi davanti il più grande attore hard di tutti i tempi. Eppure era un personaggio mite, non come me che ero solo "chiacchere e distintivo", ed ero partito per farmi il mondo... Lui il mondo se l'è fatto sul serio, e a distanza di 20 anni mi piacerebbe rincontrarlo e stringergli..... la mano per essere diventato l'uomo che è, e l'intervista qui sotto ne è una riprova.


E' l'attore pornografico per eccellenza (anche se sono tre anni che non recita più), è regista, produttore, stilista e ora autore di una compilation musicale: Rocco Siffredi - nome d'arte di Rocco Tano - parla a ruota libera di cinema hard, di scelte di vita, di politica, di televisione e sesso alla vigilia della presentazione del cd Sexy - 17 brani da lui selezionati tra le hit degli ultimi 20 anni - e della sua partecipazione al Mi-Sex di Milano.

64 minuti di brani musicali scelti da te e mixati da Sergio Cerruti: da dove nasce l'idea?
Si tratta di canzoni che mi ricordano il passaggio dall'infanzia all'adolescenza, quando cercavo di "acchiappare" qualche ragazza. Mi ricordano momenti della vita che sono sia sexy che romantici. Del resto le due cose vanno insieme. In fondo è un disco adatto ad accompagnare i preliminari. Il prossimo cd saranno 69 minuti - il mio numero preferito! - di canzoni più hard, a partire da Sex machine.

Il sesso oggi è cambiato?
Si va a tremila, oggi. Si parte troppo in quarta, consumando tutto subito. Uno sbaglio. Il sesso va assaporato come quando ci si siede a tavola e si mangia con gusto.

Come vedi l'industria cinematografica del porno, da regista?
E' un mondo assurdo, ormai. Non ci sono più i vecchi pompini di una volta! Vedo queste ragazze che dirigo, sul set: non li sanno fare, vanno troppo di fretta. Bisogna usare la lingua lentamente, fin sotto i testicoli, accarezzarli. Invece oggi vogliono essere tutte strong. Ecco allora perché ho voluto fare questo disco: perché la musica dà un ritmo giusto a tutto, anche al sesso.

So che andrai a far la festa alle donne al Mi-Sex, l'8 marzo
Sarò lì per far loro gli auguri. Basta che non mi chiedano di fare uno strip perché non lo so fare, non è il mio mestiere. Io ho bisogno di una partner davanti, non sono il tipo adatto ad esibirsi da solo sul palco. Posso pure farmi venire un'erezione e masturbarmi lì, ma fare lo stripper non è come dire: è un mestiere non facile. M'è già accaduto in una circostanza simile che Schicchi mi invitasse a partecipare. Salgo, prendo il microfono, saluto tutte le donne presenti, le vedo sorridere, poi sento una che urla: «'A Rocco, parli pure bene, ma noi siamo venute qui per vedere il pisello!». Mi son detto: «Ma guarda che cazz... di situazione». Allora ho proposto: «Sono qui in carne e ossa per fare il mio spettacolo: c'è qualcuna che vuole aiutarmi?». Beh, s'è fatto silenzio e sono scappate tutte.

Non ti è mai pesato essere un sex-symbol?
Mai. Mi piace piacere, sia alle donne che agli uomini. Sai, ci sono donne anche bellissime che io chiamo "fighe secche", perché non trasmettono niente. Sapere di trasmettere emozioni invece è splendido.

Nausea da sesso, mai?
Mai del lavoro che faccio, dell'ambiente sì, invece.

Riesci a essere fedele a tua moglie?
Dopo le quattromila donne che mi son fatto ho avuto la fortuna di trovare la superdonna, Rosa, con la quale sono sposato da 13 anni e che mi ha dato un grande equilibrio. Con lei tutto bene. Basta che non mi porti il lavoro a casa, diciamo (ride, ndr).

I tuoi figli come vivono la tua professione?
Ho dovuto spiegare loro, ovviamente. Vedevano che la gente mi salutava per strada e pensavano: «Però, quanti amici che ha papà». Per ora sono ancora piccoli, ma li sto preparando ai commenti dei compagni a scuola. Sicuramente qualcuno che gli romperà i coglioni ci sarà.

Hai scritto un'autobiografia che ha sorpreso: ci si aspettava forse di meno, da te
La gente pensa che noi siamo quelli che facciamo i «filmini porno» e che passiamo il tempo a trombare allegramente sotto le telecamere. Invece è un lavoro duro, la propria dignità scende a livelli molto bassi: sei lì, col c...o duro davanti a tutti, figurati se ce l'hai moscio. Insomma, è una condizione psicologica molto difficile, sulla quale dover lavorare. Eppure tutti credono che un attore porno non abbia niente nel cervello.

Nel libro, critichi pesantemente la televisione
Ne ho parlato in modo onesto perché è da lì che vengono tutti i messaggi. E sono sbagliati. Tieni conto che io poi ci vado pochissimo e non necessariamente perché mi fa schifo. Il più delle volte per limitare la mia popolarità. Ora non dico che fare la pornostar sia meglio che fare una valletta: però se agli Italiani togli questo e il calcio, gli hai tolto l'80% degli interessi.

Quando torni qui dall'Ungheria, dove vivi, che effetto ti fa l'Italia?
Vivo fuori da trent'anni e non voto mai, perché non mi sembrerebbe serio. Ma è la prima volta che, tornando, mi accorgo della tristezza sulla faccia della gente, della crisi, della fatica ad arrivare a fine mese. Razzoliamo molto male e c'è parecchio da fare per risolvere la situazione, ma non so chi possa essere in grado di farlo. La vecchia guardia politiica, la manderei all'Isola dei famosi: tutti lì a procurarsi per mesi il cibo per sopravvivere. Da soli e senza neanche il conforto della lasagna, la domenica, se hanno fatto i bravi. Chi vince, diventa premier.

Quanto alla morale sessuale?
Siamo troppo influenzati dalla cattivissima educazione della Chiesa. E lo dico da cattolico, seppur non praticante. Tutti gli impulsi che hai in mezzo alle gambe sono, per la Chiesa, da reprimere (il che fa di te un frustrato). Altrimenti, se li assecondi liberamente, fanno di te un assatanato. Io ho scelto di essere felice e di pensare con la mia testa.

Come sei arrivato a pensare di fare l'attore porno?
Un qualche c...o di lavoro bisogna pur farlo (ride, ndr)!. A 13 anni già volevo fare film porno. Il sesso era sviluppato come in età adulta, mi masturbavo di continuo e più lo facevo, più avevo voglia di farlo. Certo, è un duro lavoro e non si può pretendere di trombare e divertirsi sempre. L'importante è che la percentuale di "culo" che ci si fa sia al 30% e il divertimento al 70%. La controindicazione vera è venuta dopo, quando ho smesso di fare l'attore e ho deciso di fare il regista. I primi tre anni sono stati pesanti. Stavo dietro la macchina da presa con tutte queste donne davanti e non potevo toccarle. E' stato come un arresto cardiaco, per me. In quel periodo mi son fatto cento prostitute in tre settimane, perché mi dovevo sfogare. Tutta la pressione che prima sfociava nel lavoro rimaneva inespressa, era frustrante. Dovevo farmi qualunque cosa.

Alla faccia della fedeltà. Rocco
Sono estremamente fedele. Nei sentimenti, dico. Comunque sono sceso a venti prostitute (ride, ndr).

Bilancio esistenziale positivo?
Sono un uomo molto fortunato. Ho fatto nella vita una scelta difficile che però mi ha reso moderatamente ricco e felice. Da uno a dieci, direi che ho preso 11. E che rifarei tutto.

sabato 5 aprile 2008

Sono veramente stufo!!!

Sono veramente stufo!!! Si dice al peggio non c'è mai fine, ma qui si esagera veramente!! Possibile che certe cose le vediamo solo noi, o gli altri fanno finta di non vederle? Altrimenti siamo al paradosso del marito, sapendo che la moglie lo tradisce, preferisce evirarsi per non far fare sesso a sua moglie!!! Cazzo!!! (è proprio il caso di dire....)
C’era una volta l’Italia, la terra che vendeva sogni al resto del mondo. Una vecchia zia, che abita da anni vicino Toronto, ti chiama preoccupata: «Ma cosa sta succedendo lì?». Dice che lei, ormai, quasi si vergogna. È colpa di Fox News, della Cnn e anche di Rai International. Tutte quelle cattive notizie che si ripetono come una litania sono difficili da digerire. Napoli è una pattumiera. L’Alitalia non vola. La mozzarella di bufala che sa di diossina e perfino in Corea non la vogliono più. Ora il vino con l’acqua e chissà quante altre schifezze. Il Brunello, nobiltà del rosso, che contamina il Sangiovese con uve bastarde. E i francesi, gli spagnoli, i greci, perfino i greci, che ridono. Il made in Italy sporcato, stuprato, rinnegato, messo alla gogna con un marchio d’infamia, una lettera scarlatta. Magari si esagera, magari non tutto è vero, ma intanto il danno è fatto. E le precisazioni, i distinguo, le mezze smentite non bastano. L’onore è perduto.Era da tanto tempo che l’Italia non godeva di una così cattiva fama. Ora bisogna farci i conti. Il clima economico non aiuta. La recessione è qui davanti a noi e le stime economiche che parlano di crescita zero confermano ciò che molti italiani scontano sulla propria pelle. Non servono le statistiche per sapere che troppa gente non riesce a pagare il mutuo. C’è un sentimento diffuso di paura, di pessimismo, che fatica ad andare via. È come se un mago cattivo avesse gettato, con un tiro di dadi, un incantesimo del sonno su tutto il Paese. Cosa è successo? C’è un vecchio romanzo di Ayn Rand che racconta la malattia dell’Italia. Il titolo è la Rivolta di Atlante. È un mondo soffocato dalla burocrazia, dove tutti quelli che hanno talento e coraggio vengono disillusi. È un luogo dove il rischio è un tabù, dove gli imprenditori vengono accusati di egoismo, dove il denaro è sterco del diavolo. È una civiltà dove un’élite culturale e politica spaccia per solidarietà un buonismo melenso. È il regno dei predicatori con la faccia da prete, dove c’è sempre qualcuno che dice di voler andare in Africa e non ci va mai. È un governo che impone a chi vende una casa di presentare un certificato di idoneità degli impianti di luce, gas e acqua. Altra carta straccia e altre tasse su un mercato immobiliare già drogato. È il bluff di un Paese dove si pretende di controllare tutto e tutto sfugge. Dove la moneta cattiva scaccia quella buona. E la colpa è sempre collettiva. Cosa accade se le poche «minoranze coraggiose», quelle che il sociologo De Rita ritiene siano l’ancora di salvezza dell’Italia, smettono di lottare? Cosa accade se questi qui scioperano? Leggete la Rivolta di Atlante. È lì la soluzione.

sabato 29 marzo 2008

Quando l'iceberg affonda il buon senso


Come tutti gli allarmismi, c'è sempre nel mondo un gruppo di persone che si sostituisce a chi veramente studia i fenomeni della natura e non solo, per quello che in realtà sono. Dopo l'11 Settembre tutti si intendono di esplosivi, dopo l'iceberg tutti climatologi, un pò come nel calcio, tutti allenatori. Una lezione viene impartita da chi veramente ne sa di più di noi e il mio invito è di leggerla.

di Franco Battaglia
Un prezioso lettore mi informa che il distacco di un colossale iceberg (13.000 kmq), occorso pochi giorni fa in Antartide, sarebbe stato riportato dal Tg1 di prima serata addirittura come prima notizia, «manco fosse uno tsunami», col solito allarmismo corroborato dall'intervista a uno dei soliti «esperti» consulenti della Rai. Nel caso specifico, pare che l'«esperto» fosse un laureato in agraria che dice di essere climatologo e uso a giurare, dall'alto della sua agronomia, che l'attuale riscaldamento globale sarebbe colpa delle emissioni antropiche di gas serra. È bene avvisare subito i lettori che la scienza ha già dimostrato che col riscaldamento globale l'uomo non c'entra, come fa fede il Rapporto del N-Ipcc - presentato a New York lo scorso 3 marzo e naturalmente ignorato dal Tg1 - dall'inequivocabile titolo: «È la natura e non le attività umane a governare il clima». L'N-Ipcc è un organismo scientifico internazionale, simile all'Ipcc ma privo del controllo politico dei governi (la «N» sta per «non-governativo»), di cui fanno parte fisici dell'atmosfera, geologi, climatologi e scienziati di scienze affini. Tra gli italiani, nell'N-Ipcc ci sono anch'io, ma segnalo soprattutto il professor Renato Ricci, già presidente delle Società di fisica sia italiana che europea. Invece, l'Ipcc - voluto dai governi perché desse loro una patente scientifica alle dissennate scelte di politica energetica e ambientale, a cominciare da quel disastro che è il protocollo di Kyoto - è l'organismo che nel 2007 fu gratificato del premio Nobel, ma di quello politico per la pace, visto che non poteva prenderne uno per la scienza, essendocene poca o punto nei comunicati dall'Ipcc sottoscritti ogni 5 anni a partire dal 1990.E veniamo all'iceberg. Il maggiore dell'Aeronautica Fabio Malaspina - fisico del clima e vero esperto - precisa che quello che il Tg1 riporta come evento eccezionale conseguente alle attività industriali, eccezionale non è. Ad esempio, ricorda il maggiore, era il 14 aprile 1912 quando, urtato da un iceberg, affondò il Titanic, quasi giunto a destinazione davanti a New York (che, ricordo, è alle latitudini di Napoli). Magari gli agronomi consulenti della Rai diranno che anche quello fu per colpa delle attività industriali - chissà quali - sino al 1912. Peccato che nella sua Storia naturale del lontano 1749, in piena piccola era glaciale, George-Louis Leclerc così ci informa: «Nel 1725 i navigatori hanno trovato i ghiacci ad una latitudine in cui non se ne trovano mai nei nostri mari settentrionali. In quell'anno non vi fu, per così dire, estate, e piovve quasi di continuo: così non soltanto i ghiacci dei mari settentrionali non si erano sciolti al 67º parallelo nel mese di aprile, ma se ne trovarono in giugno anche al 41º». Ricorda il maggiore Malaspina che, anche se sui media i poli sono presentati dal punto di vista climatologico molto simili, l'Artico è un oceano circondato da continenti (i ghiacci sono prevalentemente sull'acqua), mentre l'Antartide è un continente circondato dagli oceani. Una enorme differenza, questa, che contribuisce ai processi che, in questo ultimo periodo, inducono i ghiacci marini in Antartide ad aumentare, come accade già da molti anni, con un record di estensione raggiunto lo scorso anno (notizia naturalmente passata totalmente sotto silenzio). Per farla breve, la verità allora è che il distacco del colossale iceberg, lontano dall'essere la prova che in Antartide i ghiacci stanno diminuendo (come tutte le Agenzie hanno strillato disinformate), esso è invece la conseguenza del fatto che, lì, i ghiacci, sono aumentati come non mai. E visto che siamo in tema, consentitemi di chiudere consigliandovi una piacevolissima lettura, fresca di stampa e che, anche se non scientifica, è scientificamente scrupolosa e attendibile, perché tali i giornalisti che ne sono autori (Antonio Gaspari e Riccardo Cascioli): «Che tempo farà: falsi allarmismi e menzogne sul clima» (Piemme editore).

mercoledì 19 marzo 2008

Pacifisti latitanti (e vigliacchi)


Come dico sempre, l'omaggio a un bell'articolo non ha bisogno di commenti se non quello di leggerlo e riflettere....


di Tony Damascelli
Dove sono le bandiere della pace? Qualche lenzuolo grigio di smog resta appeso, mogio, alle finestre dei resistenti. L’arcobaleno è stato sconfitto dalle polveri sottili ma si preannunciano lavaggi energici per la propaganda delle prossime elezioni politiche. Dove sono Agnoletto e Casarini? Dove si sta muovendo l’onorevole Caruso? Che cosa pensa e urla Grillo e, con lui, i suoi fedelissimi? Dico del Tibet. Lo so, non è roba nostra. Dico dei monaci buddisti ammazzati. Sì, al massimo fanno tenerezza e poi noi abbiamo le beghe sui frati nostrani, defunti o vivi, santi o sporcaccioni, figurarsi se possiamo batterci per vicende così «minori». Le olimpiadi di Pechino? Non si svolgono mica domani, eppoi sempre ’sta storia dei Giochi, della solidarietà, della fratellanza, una noia estiva. Meglio il labiale di Ibrahimovic, il calcio d’angolo furbastro della Roma, il test antidoping all’alba per il ciclista addormentato, la centralina svalvolata della Ferrari, il listino degli esportatori di Vaduz, la colomba pasquale che, visti i costi, sembra piuttosto un condor, il diesel che affianca la benzina verde. No, i disobbedienti civili, i girotondini, i ragazzi dei centri sociali hanno altro cui pensare. Eppure là dove la terra scotta e vige la legge delle colt comuniste qualcosa sta accadendo, come accadeva nella collezione primavera estate dell’Ottantanove, quando piazza Tienanmen venne occupata romanticamente dagli studenti e liberata serenamente dai carri armati del governo cinese (comunista si può scrivere o preferite della sinistra radicale?). Oggi si svolgerà una manifestazione indetta da Il Riformista e da Radio Radicale, non prevedo adunate oceaniche come per il concerto del 1° maggio anche se il tema all’ordine del giorno è meno musicale ma scalda più di una canzone di Jovanotti. Così come nessuna trasmissione televisiva, pubblica e privata, ha presentato il modellino del monastero, la sagoma di un fucile mitragliatore, l’elenco dei morti, l’identikit degli assassini che non sono semplici vicini di casa ma i padroni di tutto il condominio, nel senso del Paese. E nessun giornale (e anche trasmissione televisiva e radiofonica) di informazione sportiva ha dato e sta dando spazio al problema relativo, alla partecipazione ai prossimi Giochi estivi, anche aprendo un dibattito, facendone discutere, non i giornalisti o le vecchie glorie dello sport, ma chi parteciperà alle Olimpiadi. Ci sono spicchi del mappamondo che restano fuori dai discorsi. Nessuno conosce il nome dei monaci tibetani coperti di sangue, i morti non parlano, i vivi anche, il regime è salvo, bandiera rossa trionferà. Le altre bandiere, ricolorate nell’arcobaleno, quelle della pace insomma, sono in lavanderia.

mercoledì 5 marzo 2008

La piccola Giuseppina uccisa per un tema che era piaciuto al Duce


Un altro grande articolo della redazione de "il Giornale"

Durante gli ultimi giorni di aprile 45, ricordati come le «radiose giornate», venne commesso in Savona un efferato delitto su una ragazzina di tredici anni; un omicidio brutale, ingiustificato!
Ho sempre sperato che la mia città trovasse l’onestà morale di ricordare quella bambina innocente (ma quali gravi reati può commettere una tredicenne?), non per giustizia, che ormai chi commise quell’atrocità deve rispondere a ben altro tribunale, ma per un sentimento di pietà; ed ora io avrei sepolto nella mia mente quei ricordi!
Ma ora, dopo oltre sessant’anni, non spero certamente più in una doverosa riabilitazione; e allora affido alla carta la memoria di un tragico evento che mi volle occasionale testimone di quel martirio.
Cercando Valentino
Fu proprio negli ultimi giorni di aprile, quando ormai il conflitto stava volgendo al termine in tutta l’Europa, che di primo mattino vidi arrivare a casa nostra Lina Cuttica alla ricerca di suo fratello Valentino, milite della Brigata Nera, di cui più nulla si sapeva; anzi lei sperava di trovarlo presso di noi.
C’era molta amicizia con tutta la famiglia Cuttica, amicizia nata qualche anno prima quando, ancora ragazzo, Valentino aveva lavorato nel negozio di ferramenta in cui mio padre era rappresentante. Ed io in particolare ero molto legato a Valentino per il suo carattere allegro e la sua indole aperta.
Ora quella gente, disperata per la mancanza di notizie, pensò di rivolgersi a mio padre, come unica persona in grado di cercare quel ragazzo o di sapere qualcosa sulla sua sorte; e lui, generoso e disponibile come fu sempre, con una buona dose di coraggio, decise di cominciare le ricerche là dove venivano fucilati o scaricati da vari luoghi dell’esecuzione, i soldati della Repubblica Sociale (e non solo loro) e cioè contro i muri esterni del cimitero di Zinola. Si parlava allora della «resa dei conti» e tutti avevano capito che mio padre nutriva poche speranze di trovare la Brigata Nera Valentino ancora vivo!
Volle accompagnarlo un boscaiolo che viveva solo in un piccolo alloggio nella nostra scala; era Venturino, un uomo forte e buono, reduce della «grande guerra», che più volte mi aveva affascinato con i racconti di tragiche battaglie dall’altopiano della Bainsizza al San Michele.
Allora era la bicicletta il mezzo più consueto per muoversi e, prima di partire, mio padre mi guardò dicendomi: «Sta vicino a Lina e a tua madre, noi faremo presto!». E soggiunse: «Non fare come il solito di testa tua e soprattutto non ci seguire!». Maledizione! Non avevo abbassato gli occhi in tempo e mio padre, come sempre quando mi guardava, aveva letto il mio pensiero!
Naturalmente la tentazione era troppo forte e, dopo aver aspettato qualche minuto che i due fossero ad una rispettosa distanza, inforcai la bicicletta di mia madre e li seguii.
Piccola martire sconosciuta
La strada correva veloce sotto le ruote della bici; non c’era certo il traffico di oggi, però una lunga fila di grossi autocarri «Dodge» con la bianca stella americana sul cofano e sulle portiere sostava sull’Aurelia, restringendo la carreggiata mentre numerose jeep (allora le chiamavano camionette) sfrecciavano continuamente nei due sensi; era la prima volta che vedevo i soldati americani bianchi e neri.
Ancora oggi mi chiedo come non ci rendessimo conto del pericolo che correvamo nella ricerca di un milite della brigata nera; in quei giorni bastava molto meno per essere ammazzati; ma forse i quotidiani bombardamenti aerei ci avevano abituati al pericolo!
E fu proprio entrando in Zinola che mi accorsi di aver perso di vista mio padre; aumentai l’andatura e, superata la chiesa ed il passaggio a livello, imboccai velocemente la semicurva che portava davanti al cimitero... e trovai mio padre che mi stava aspettando! Mi guardò con quell’espressione severa e triste che mi faceva più male di una sberla, poi disse: «Mi rendo conto che dovremo fare un lungo discorso noi due! Per adesso siediti lì e aspettaci!». Mi aveva indicato il muretto dell’argine lungo il torrente Quiliano e, mentre ubbidivo a quell’ordine perentorio, loro due si avviarono verso una lunga fila di cadaveri.
Ritengo che ancora una volta la curiosità fosse più forte dell’obbedienza e quindi lentamente, molto lentamente, mi avvicinai ai primi corpi di quella fila.
E proprio il primo era un cadavere di donna molto giovane; erano terribili le condizioni in cui l’avevano ridotta; evidentemente avevano infierito in maniera brutale su di lei, senza riuscire a cancellare la sua giovane età. Una mano pietosa aveva steso su di lei una sudicia coperta grigia che parzialmente la ricopriva dal collo alle ginocchia.
La guerra ci aveva costretto a vedere tanti cadaveri e, in verità, la morte concede ai morti una distesa serenità; ma lei, questa sconosciuta ragazza no! L’orrore era rimasto impresso sul suo viso, maschera di sangue, con un occhio bluastro, tumefatto e l’altro spalancato sull’inferno.
Ricordo che non riuscivo, come paralizzato, a staccarmi da quella povera disarticolata marionetta con un braccio irrigidito verso l’alto, come a proteggere la fronte, mentre un dito spezzato era piegato verso il dorso della mano. Mi riscosse la voce di mio padre, insolitamente dolce, che mi disse: «Hai visto abbastanza! Ora torniamo a casa!».
Nulla ricordo del viaggio di ritorno, soltanto la voce di mio padre che, rivolto al nostro compagno di viaggio, diceva, riferendosi evidentemente a Valentino: «Se non lo abbiamo trovato tra i morti, speriamo che sia ancora tra i vivi!».
È strano, ma quanto più si invecchia, più si fanno nitidi i ricordi degli anni lontani, mentre non si ricorda la cena della sera prima.
Giuseppina Ghersi
«Speriamo che sia ancora tra i vivi!» Aveva detto mio padre, alimentando una tenue speranza nei superstiti di quella famiglia, speranza che durò soltanto una paio di settimane, quando il massacro del colle di Cadibona, ricordato come «la corriera della morte», assieme ad altre trentasette, anche la vita di Valentino fu stroncata.
Passarono alcuni anni; io avevo cominciato a lavorare; un lavoro che mi piaceva, anche se a volte mi costringeva lontano da casa per qualche settimana; e fu durante una di queste mie assenze che morì una persona cara: Giobatta Vignolo, conosciuto come u «Russu», un vecchio contadino dal quale avevo imparato molte cose, soprattutto saggezza e pazienza!
Naturalmente, appena mi fu possibile, in occasione di un intervallo festivo, volli onorarne la memoria con una visita al cimitero di Zinola. Fu un lungo giro, o meglio un pellegrinaggio, poiché erano già tante le persone a me care che non erano più!
Quando mi avviai all’uscita, passando tra i due campi più prossimi al cancello, notai una coppia che stava sistemando dei fiori su una tomba, fiori che, in parte, coprivano la lapide, ma lasciavano intravedere le date: 1931-1945; mi tornò in mente l’aprile del 45 e... ma non c’erano dubbi: quella data e quell’età corrispondevano alla giovane sconosciuta!
Esitai alquanto, poi chiesi ai due: «È la ragazzina che hanno ucciso a fine aprile?». La donna mi guardò con diffidenza, poi, con voce ostile, mi chiese: «Perché?»; mi resi conto che stavo rivolgendomi ai genitori, persone profondamente ferite, che non avevano mai avuto giustizia (così aveva voluto il dominante terrore politico) ed io, un po’ a disagio, ma senza recedere dal mio proposito, risposi: «Se è lei, io l’ho vista laggiù contro il muro, come l’avevano lasciata dopo averla uccisa!». La dura corteccia di rancore si stava aprendo e, dopo qualche istante, mi dissero: «Vieni pure, noi siamo i genitori».
Ebbi così modo di leggere per intero il nome della lapide: Giuseppina Ghersi.
Parlai brevemente della coincidenza che mi aveva portato a Zinola in quei giorni e, dopo qualche frase di circostanza, mi allontanai. E fu a questo punto che scattò qualcosa, per cui tornai sui miei passi e chiesi se avessero una fotografia di Giuseppina; oggi penso che ciò fosse dovuto all’inconscia necessità di cancellare dal mio ricordo quel giovane volto martoriato. Mi parve di capire che la mia richiesta facesse loro piacere, perché la donna mi rispose: «Io qui con me non ho nulla, però se passi da casa nostra, certamente qualcosa posso trovare». Mi diedero l’indirizzo, ma poiché non potevo fissare il giorno a causa del mio lavoro, promisi che sarei passato da loro in un tardo pomeriggio festivo.
Dopo circa una settimana, come promesso, mi recai all’indirizzo avuto: via Tallone (il numero civico non lo ricordo), una via che oggi ha cambiato nome. Trovai, oltre ai genitori che già conoscevo, anche la zia di Pinuccia; mi accolsero con estrema cordialità, come fossi stato un vecchio amico e, se allora ne fui sorpreso, in seguito compresi l’isolamento che aveva circondato i signori Ghersi, considerati come appestati (e ancora peggio: fascisti) ed in malaugurato caso di incontro, i conoscenti e gli amici abbassavano gli occhi fingendo di non conoscerli! Questo era il clima di paura in quel tempo «radioso»!
La signora Laura raccontò l’allucinante calvario suo e di suo marito: furono dapprima arrestati con la cervellotica accusa di aver avuto rapporti commerciali con i nazi-fascisti (gestivano un banco di frutta e verdura al mercato); si volle inoltre che venisse rintracciata la figlia Giuseppina: «E che diamine! Vogliamo soltanto interrogarla! Che altro possiamo volere da una ragazzina?».
Rassicurati da quella infame menzogna, sempre accompagnati da uomini armati, trovarono Pinuccia in casa di una conoscente e per la giovane fu l’inizio della fine.
Con voce rotta dai singhiozzi la signora Laura continuò: «Io non rividi più mia figlia viva! Ci sequestrarono le chiavi di casa e, mentre noi eravamo in prigione, ci portarono via tutto! Per tutto il periodo della prigionia ogni giorno arrivavano, mi picchiavano, mi minacciavano senza una ragione...».
Il suo pianto accorato creò una pausa nel suo racconto, ed io posi la domanda chiave che era all’origine di quell’omicidio: «Ma perché fu uccisa?».
Mi risposero un po’ tutti, ovvero l’accusa ufficiale era spionaggio, accusa ridicola data l’età della vittima, però la zia azzardò un’altra ipotesi: Giuseppina aveva partecipato ad un concorso a tema per cui ricevette i complimenti dal Duce in persona; poteva essere questo, la sua condanna a morte!
Poi ancora disse che, con molto coraggio, era andata nelle scuole di Legino, diventate per l’occasione centro di raccolta, dove Giuseppina era «detenuta» ed in effetti riuscì a parlarle per pochi minuti: «Era ridotta in uno stato pietoso; mi disse di aver subìto ogni sorta di violenza... (a questo punto tacque per pudore su tante nefandezze che la decenza lascia solo intuire).
Ero sconcertato e, se non avessi visto con i miei occhi l’oggetto di quel martirio, non avrei creduto a tanta ferocia! Comunque osai ancora chiedere: «Nessuno ha assistito alla sua morte?». Mi rispose il signor Ghersi: «Ero io con lei; prima mi hanno preso a pugni e mi hanno colpito col calcio del fucile, perché volevo difendere mia figlia, poi hanno ucciso Pinuccia a calci!». Azzardai una domanda: «Ma non le avevano sparato?». Con voce alterata mi rispose: «Le spararono un colpo alla nuca, ma la mia bambina era morente, o forse già morta!».
Per ciò che ricordo, la mia visita volgeva al termine, ma al momento del commiato, ricordai qualcosa che mi aveva colpito e ancora chiesi: «Scusatemi, ma Pinuccia aveva forse un anello al dito?». Dopo un momento di perplessità la zia della bambina mi rispose: «Si certo! Un anellino d’oro, ma perché me lo chiedi?». Abbassai il capo e mormorai: «No niente, chiedevo così!».
Lasciai quella casa intrisa di dolore e, scendendo le scale, ebbi la sensazione che non avrei più rivisto nessuno di loro; e infatti fu proprio così!
Stava piovviginando quanto uscii in strada; avevo tanta rabbia dentro. Non potevo accettare l’ingiustizia, da qualunque parte provenisse, non potevo accettare l’idea che i criminali fossero da una sola parte; non riuscivo a capire perché, dopo aver eliminato la tirannide si sognasse alla guida del nostro paese, ancora tiranni ugualmente spietati e feroci...
Dal cielo buio una fine acquerugiola mi scorreva sul viso; meglio così per passare inosservato tra la gente!
Molto, molto tempo dopo lessi che forse un poeta, forse un disperato disse che gli occhi velati di lacrime vedono molto lontano...
Ma allora non potevo saperlo.

mercoledì 27 febbraio 2008

La vera storia della Cicala e della Formica


Pubblico questa interessante storiella da raccontare ai vostri figli:

Versione classica:
La formica lavora tutta la calda estate; si costruisce la casa e accantona le provviste per linverno. La cicala pensa che, con quel bel tempo, la formica sia stupida e quindi lei ride, danza, canta e gioca tutta l'estate. Poi giunge l'inverno e la formica riposa al caldo ristorandosi con le provviste accumulate mentre la cicala trema dal freddo, rimane senza cibo e muore.

Versione aggiornata:

La formica lavora tutta la calda estate; si costruisce la casa e accantona le provviste per l'inverno. La cicala pensa che, con quel bel tempo, la formica sia stupida e quindi lei ride, danza, canta e gioca tutta lestate. Poi giunge linverno e la formica riposa al caldo ristorandosi con le provviste accumulate. La cicala tremante dal freddo organizza una conferenza stampa e pone la questione del perché la formica ha il diritto dessere al caldo e ben nutrita mentre altri meno fortunati muoiono dal freddo e fame. La televisione organizza delle trasmissioni in diretta che mostrano la cicala tremante dal freddo nonché degli spezzoni della formica al caldo nella sua confortevole casa con l'abbondante tavola piena di ogni ben di Dio. I telespettatori sono colpiti dal fatto che, in un paese così ricco, si lasci soffrire la povera cicala mentre altri vivono nell'abbondanza. I sindacati manifestano davanti la casa della formica in solidarietà della cicala mentre i giornalisti organizzano delle interviste domandando perché la formica sia divenuta così ricca sulle spalle della cicala ed interpellando il governo perché aumenti le tasse della formica affinché essa paghi la sua giusta parte. In linea con i sondaggi, il governo redige una legge per l'eguaglianza economica ed una (retroattiva all'estate precedente) antidiscriminatoria. Le tasse sono aumentate e la formica riceve una multa per non aver occupato la cicala come apprendista. La casa della formica viene sequestrata dal fisco perché non ha i soldi per pagare le tasse e le multe. La formica lascia il paese e si trasferisce in Liechtenstein. La televisione prepara un reportage sulla cicala che, ora ben in carne, sta terminando le provviste lasciate dalla formica nonostante la primavera sia ancora ben lontana. L'ex casa della formica, divenuto alloggio sociale per la cicala, comincia a deteriorarsi nel disinteresse della cicala e del governo. Sono avviate delle rimostranze nei confronti del governo per la mancanza di assistenza sociale, viene creata una commissione apposita con un costo di 10 milioni. Intanto la cicala muore doverdose mentre la stampa evidenzia ancora di più quanto sia urgente occuparsi delle ineguaglianze sociali. La casa è ora occupata da ragni immigrati. Il governo si felicita delle diversità culturali del paese così aperto e socialmente evoluto. I ragni organizzano un traffico di eroina, una gang di ladri, un traffico di mantidi prostitute e terrorizzano la comunità.


Non so perché ma questa versione aggionata di questa storiella dell'infanzia, mi ricorda qualcosa....

mercoledì 20 febbraio 2008

Che tristezza la mia vecchia Firenze


di Marcello Fusi

Alcuni giorni fa partecipai ad una riunione presso un circolo culturale in Firenze. L'argomento era "il futuro della città", presenti alcuni noti politici dell'area fiorentina, fra i quali anche un Europarlamentare. Quest'ultimo con dotta eloquenza, ci disse, senza tanti complimenti, che Firenze era ormai una città di vecchi poco propensi a pensare al futuro, troppo ancorati ad un passato che impedisce loro di rinnovarsi scrollandosi di dosso palazzo Pitti, L'Accademia, gli Uffizi, ecc. A Strasburgo, parole sue, la tranvia passa in pieno centro storico e nessuno ha da ridire. Egregio onorevole, non sono d'accordo: I vecchi fiorentini piagnoni, come Ella li definisce, sono solamente delusi per l'immagine della loro città, sporca, assediata da un turismo di massa usa e getta, piena di venditori abusivi che irrorano le belle strade del centro storico con i loro tappetini colmi di mercé più o meno contraffatta, piena di pizzerie e fast-food, di brutti ceffi e prostitute che girano di notte, e così via! Per questo rimpiangono la Firenze di un tempo e, anche se comprendono che il passato è passato e che occorre rinnovarsi, non piace loro il presente: pensano forse che, se questo è e sarà il "nuovo", non resta che rimpiangere il "vecchio".
lo sono uno di questi, nato a due passi da Piazza Della Signoria.
Ero là, stretto al collo di mio padre, quella notte maledetta che saltarono i ponti e Por Santa Maria e la vecchia casa ballava come una trottola; ero là quando, col cuore in tumulto, ascoltavo di notte il suono pesante e cadenzato degli stivali della ronda tedesca che passava sotto casa; ero là quando i carri degli "alleati" passarono da via Del Corso (che, per la verità, stava loro un po' stretta) per andare in Piazza Della Vittoria, oggi Piazza Della Repubblica.Poi, piano piano, la lenta rinascita di Firenze, colma di macerie e di dolore. Ricordo L'Arco di San Pierino, oggi teatro di ben più tristi personaggi, dove, a sera, suonava la "Pippolese", celebre complessino di amene e pittoresche figure di Borgo Allegri, Via de Macci e dintorni. Ricordo quel giorno quando si abbassarono le saracinesche del "48" oggi "COIN", durante il funerale di mio padre. Era un vecchio mondo "becero" ma vivo ed umano, dove ti sentivi bene e dormivi sonni tranquilli.
Poi i giorni dell' alluvione quando, con i vecchi di oggi, mi sono rimboccato le maniche per pulire il marasma lasciato dall'Arno impazzito. Già, ricordo un giorno, via Cavour piena di fango e nafta puzzolente, tanta gente con stivali di gomma, che spalava il fango imprecando. Davanti proprio alla prefettura si fermò una camionetta verde con sopra il Presidente Della Repubblica e relativo codazzo; un vero putiferio! Qualcuno alzò gli occhi e disse: "O sor Presidente, la torni a Roma che qui noi s'ha da fare!" Questi personaggi burberi ed arcigni sono i vecchi di oggi, quelli che non sopportano più l'assordante silenzio degli amministratori di Palazzo Vecchio che, con i loro grossolani errori, tentennamenti e liti politiche senza fine, non sono riusciti a fare qualcosa di positivo per il bene e la crescita della città.
Che tristezza e che voglia della mia vecchia Firenze.

lunedì 18 febbraio 2008

A Firenze si moltiplicano solo gli sprechi

di Simone Innocenti (da L'espresso)
Progetti sbagliati, forniture gonfiate di materiali, architetti che si distraggono. Così sono stati buttati via 10 milioni. Ecco l'accusa delle Fiamme Gialle

Firenze canzone triste. Perché sarebbe bastato poco per incidere senza traumi nel tessuto storico del gioiello del Rinascimento, sperimentando metodi finanziari d'avanguardia nel gestire opere moderne con pareti di cotto per fare la pace con la storia. Il tutto sulla carta nel segno del buon governo. Peccato che dai cantieri sia spuntato qualcosa di molto diverso dalla città ideale. Con una serie di sprechi, di sospette malversazioni e di pacchiane superficialità che sembrano testimoniare una gara al peggio tra tecnici e amministratori comunali. Il rapporto delle Fiamme Gialle incaricate dal procuratore capo della Corte dei Conti Claudio Galtieri di fare luce sulle spese folli del piano di costruzioni comunali è un documento sorprendente: una parata di assessori distratti o incompetenti, architetti superficiali o spregiudicati, supervisori addormentati e controlli inesistenti. Quelle passate ai raggi X dai finanzieri dell'allora Gruppo servizi vari diretto dal maggiore Stefano Saletti sono due opere ormai tristemente famose, il sottopasso di viale Strozzi e il parcheggio sotterraneo della Fortezza da Basso, diventate un simbolo della 'Firenze bella addormentata' che non riesce a concretizzare i suoi sogni di sviluppo. Due opere che dovevano far parte di una rosa di interventi molto più larga, che ha però perso un pezzo dietro l'altro. E che doveva servire da prova generale per quella contestata rivoluzione cittadina delle tramvie. A leggere i risultati degli accertamenti sui costi, in città sono tanti gli amministratori a dormire sogni d'oro. Secondo il dossier nella realizzazione dei due progetti il Comune avrebbe buttato via oltre 10 milioni di euro: denaro sprecato per correggere errori grossolani nei disegni, per rettificare previsioni approssimative o addirittura abbattere strutture che strada facendo si sono rivelate mostruose. E c'è anche di peggio. Perché quando i militari del Nucleo di polizia tributaria hanno dato un'occhiata al famigerato sottopasso sono rimasti perplessi. È bastato fare i 'conti della serva' per capire che anche in superficie le spese non quadravano. È 'il miracolo di sanpietrino' con la moltiplicazione delle mattonelle e delle travi. Prendiamo le lastre in pietra Santa Fiora, un materiale richiesto dalla soprintendenza per limitare l'impatto della costruzione. La ditta fornitrice ne ha fatturati 2.416 metri quadrati; i responsabili dell'opera invece ne hanno fatti pagare al Comune 2.792. Un giochetto che, secondo i finanzieri, sarebbe costato ai cittadini 130 mila euro. Ancora più grave sarebbe la 'cresta' sulla pavimentazione in porfido, che lievita nel transito dalle fatture al contratto finale: dal momento della consegna i cubetti di porfido misteriosamente si dilatano. Un sistema che avrebbe permesso ai costruttori di intascare 158 mila euro di troppo. La fantasia prosegue anche con le travi che sostengono il tetto, che sulla carta assumono dimensioni ben più grosse del reale. I finanzieri le contano e le confrontano con la superficie fatta saldare al Comune: anche qui 167 mila euro di troppo. Persino nella bonifica dei terreni dai residuati dei bombardamenti di guerra la spesa esplode: 71 mila euro non dovuti. Insomma, sarebbe bastato fare quattro calcoli da geometra neodiplomato per scoprire una lista gonfiata per circa mezzo milione di euro. Senza mettere il naso in una innovazione tutta fiorentina che supera la creatività meridionale in fatto di appalti. Perché se un tempo dominava il famigerato adeguamento in corso d'opera, che faceva ingigantire i costi dei cantieri, sulle rive dell'Arno hanno invece inventato l'adeguamento a cose fatte: le spese extra, sottolineano i finanzieri, saltano fuori persino dopo l'apertura al traffico del sottopasso. Al centro di tutto il tentativo di usare il project financing, una rivoluzione nella gestione degli appalti, che avrebbe dovuto garantire consegne chiavi in mano senza sorprese di dubbia origine. Per questo tutto viene assegnato al consorzio Firenze Mobilità, incentrato sul colosso locale Baldassini-Tognozzi-Pontello.
Il risultato invece, secondo l'inchiesta, è l'opposto delle buone speranze di partenza. La conclusione? Nessuno controllava l'attendibilità degli importi richiesti dalla società a cui era affidata la costruzione. Non esisteva nessuna contabilità dei lavori: si andava avanti alla cieca. I finanzieri sono chiari nel definire le responsabilità erariali. L'architetto Gaetano Di Benedetto, numero uno della direzione urbanistica del Comune, viene indicato al primo posto. Lo segue l'assessore Tea Albini, che ha gestito la parte finale del piano finanziario delle opere. Ma tutta la giunta ha avallato nel silenzio le spese folli del sottopasso: tutti si sono limitati a sancire 'l'indirizzo politico' senza nemmeno chiedere lumi sui costi extra. Il sindaco Leonardo Domenici, il vicesindaco Matulli, gli assessori Coggiola, Nencini, Bevilacqua, De Siervo, Siliani Gori, Biagi, Del Lungo, Lastri e quel Graziano Cioni, celebre per l'ordinanza sui lavavetri,si sarebbero accodati con un comportamento che, per gli inquirenti, non è solo negligenza, ma anche una colpa grave nel non difendere il denaro pubblico. Ovviamente ce n'è anche per il direttore dei lavori. Il danno provocato dalla mancanza di controlli? Tre milioni e 187 mila euro.
L'assedio alla Fortezza da Basso invece ha aspetti tragicamente fantozziani. Il cantiere con parcheggi sotterranei, negozi e uffici parte e comincia a spuntare in modo minaccioso dal sottosuolo, facendo ombra ai bastioni del Sangallo. La città insorge: non erano questi i piani. L'opera viene fermata e si decide di demolire quelle costruzioni uscite fuori come funghi dal terreno. Ma neanche il secondo tentativo fa centro nel rispettare il contesto antico. La prima visita ai lavori mostra faraglioni di cemento armato che inorridiscono cittadini e assessori: nuova interruzione ordinata personalmente dal sindaco, altra revisione dei disegni. Strada facendo, il costruttore ha dovuto rinunciare a parcheggi da vendere e uffici da affittare oltre ai costi delle demolizioni. Totale: a carico del municipio ci sono 6 milioni e mezzo di euro di spese in più. Che secondo le conclusioni della Finanza andavano evitate.
La colpa, secondo gli investigatori, è dei tecnici di Soprintendenza e Comune. Nessuno si è preoccupato di verificare se i progetti rispettavano le indicazioni per salvaguardare la Fortezza medicea. Ci sono architetti che candidamente ammettono di essersi fidati della buona fede del costruttore e di avere controllato solo sull'estetica dei giardini. Sì, proprio così: mentre si innalzavano cubi di calcestruzzo l'attenzione era tutta per le armonie del parco. Così come gli esperti della Commissione edilizia che non si erano accorti delle strutture. Scriveva nel 2005 Antonio Paolucci, un'autorità dei beni culturali: "La questione della Fortezza sta diventando ogni giorno più imbarazzante". E invocava: "Nessuno che abbia un minimo di pudore può sostenere quel progetto". Il fatto triste è che i fiorentini hanno pagato due volte quegli errori. Perché per far fronte agli sbagli, il Comune in parte ha tirato fuori soldi cash, in parte ha rinunciato ad altre opere già finanziate. Come il parco fluviale del Mensola, 75 mila metri quadrati di verde attrezzato dissolti nel nulla.