lunedì 26 novembre 2007

Empatia e simpatia

Tratto da Wikipedia

Nell'uso comune, è l'attitudine ad essere completamente disponibile per un'altra persona, mettendo da parte le nostre preoccupazioni e i nostri pensieri personali, pronti ad offrire la nostra piena attenzione. Si tratta di offrire una relazione di qualità basata sull'ascolto non valutativo, dove ci concentriamo sulla comprensione dei sentimenti e bisogni fondamentali dell'altro.

Prendo spunto da un commento per trattare un argomento che, come parola singola (empatia) non dice un gran che, ma leggendone il significato, forse qualcuno si rispecchierà. Certamente l'anonimo commentatore del post precedente che ha fatto uso di tale parola, è un conoscitore della lingua italiana, ma subito dopo è stato "pizzicato" da un altro anonimo con l'appellativo di essere "un pò rigido" (leggeteveli perchè sono molto carini ndr). L'associazione della parola e dell'appellativo mi ha fatto riflettere, proprio perchè l'empatia è il contrario della rigidità, anzi bisogna tendere ad ascoltare gli altri più che noi stessi. Ma quante volte abbiamo creduto di essere "empatici" quando in realtà stavamo solo aspettando una buona occasione? Quello che stavamo facendo era in realtà essere simpatci... La simpatia nasce quando i sentimenti o le emozioni di una persona provocano simili sentimenti anche in un'altra, creando uno stato di "sentimento condiviso". E' un pò il sale dei rapporti personali del nostro tempo, tendiamo molto alla condivisione di attimi felici, attimi tristi (simpatia è anche questo) e sopratutto momenti di estremo godimento. Difficilmente però ci soffermiamo ad ascoltare gli altri senza metterci del nostro, senza commentare senza salire in cattedra. E allora nel goffo tentivo di essere ascoltati tendiamo ad ascoltare, senza in realtà capire molto, sperando di ricevere quello che abbiamo appena dato, ovvero una spalla su cui sfogarsi. Ma in questo modo le conversazioni diventano una sorta di "se tu dai una cosa a me...".
Come esperienza di vita posso dirvi che ho imparato molto ascoltando, osservando, facendo tesoro di quello che assimilo dall'esterno per poi confrontarlo con il mio io, stilando un profilo che non sempre può piacermi, ma che mi può suggerire se la direzione che ho intrapreso è quella giusta. Le stesse pagine di questo blog possono essere considerate "empatiche", cerco di partire dai miei pensieri, da un fatto a cui posso aver assistito il giorno prima, e le offro al lettore che per caso capita a leggerle, offrendogli un motivo di riflessione, un punto da cui partire per farsi delle domande, se mai ancora non se le fosse poste... I commenti stessi poi, conservando l'anonimato, aiutano a scrivere qualcosa senza bisogno di dire chi siamo, ma più semplicemente cosa proviamo. Non voglio dare risposte, voglio solo condividere le vostre "anonime" emozioni, perchè è così che ho imparato ad ascoltare. Le persone la fuori sono come un grande libro su cui leggere ed imparare. E' come andare in libreria, anche se cerchi un romanzo, o un libro di narrativa, ti soffermi comunque a leggere i titoli di altri libri, e magari incuriosito gli sfogli, e uscendo ti accorgi che non hai comprato un romanzo, ma un bel libro di storia o fantascenza, perchè solo dopo averlo aperto hai capito che ti poteva piacere... Leggiamole di più le persone che incrociamo nella vita, non soffermiamoci alla copertina, accettiamo quel che la vita ci offre in quel momento, magari è una strada corta, ma la dobbiamo passare per andare in un viale alberato... Lascio questo post con un frase non mia: se ci hanno fatto due orecchie e una sola bocca significa che bisogna più ascoltare che parlare, non credete?

lunedì 19 novembre 2007

Meglio soli o...

...mal accompagnati? Non so chi abbia detto la precedente frase, sicuramente qualcuno che, vistosi al perso, ha fatto qualcosa senza rimpiangere di essere solo. La solitudine al giorno d'oggi è meno marcata, meno visibile, ma vi garantisco che, in senso assoluto, pervade ancor'oggi la nostra società. Strumenti come le chat (non il gatto!), sms, mms, che vanno così alla grande, fanno emergere che il dialogo, nonostante i tempi di una grande comunicazione, sia ancora lo scoglio più duro da affrontare. "Ci siamo incontrati online", "ti ho agganciato con il bluetooth", "l'hai letto l'sms?", ormai sono i nuovi termini che hanno preso il posto della rosa, del piccione viaggiatore, del messaggero, che a cavallo portava la missiva del principe alla sua amata. Eppure c'è ancora qualcosa che mi sfugge... Non so se vi è capitato anche a voi, ma nei luoghi dove ci ritroviamo, ad esempio per un aperitivo, in un locale notturno, sembra che tutti parlino con tutti, ma nessuno veramente si capisce. Risate a crepapelle, baci e abbracci, facce felici, mai espressioni sobrie, gesti poco appariscenti, un bel baciamano... un pò come l'ultimo dell'anno: bisogna per forza divertirsi, e non succede quasi mai! Possiamo parlare della morte del dialogo? Non credo, i mezzi di comunicazione moderni dimostrano il contrario, c'è più una paura a rapportarsi con gli altri nei temi che più ci stanno a cuore, parliamo di macchine, orologi, dell'ultimo telefonino, del gossip, e i programmi all Maria de Filippi fanno emergere questo: bella gioventù vuota come una zucca di Halloween.
Perchè comunicare al di fuori delle effimeratezze è così difficile? Forse perchè abbiamo paura di crescere, o di prendere decisioni importanti che ci sconvolgono la vita... Nel dialogo a due non dobbiamo aver paura di rivelare un particolare intimo di noi stessi, non dobbiamo tenerci dentro quel che di buono e apprezzabile possiamo avere, perchè sono i nostri desideri, le nostre paure, le nostre gioie a rivelare parte di noi stessi. Io, per esempio, non accetto di avere 42 anni, ne tantomeno essere considerato un uomo: preferisco venir definito un eterno ragazzo, ma non per questo mi comporto in maniera superficiale. Ho formato una famiglia dall'oggi al domani, senza preoccuparmi del dopodomani, ho vissuto attimi nel momento stesso che li vivevo, e non pensando al dopo... La solitudine vera nasce dalla ricerca spasmodica di non stare soli. Provate una sera a dedicarvi a voi, nel silenzio delle vostre stanze, a guardare un bel film, a prepararvi una cena, a parlare con il gatto, a bere un bel bicchiere di vino... Vi accorgerete di avere dentro una persona al quale non avete mai dato ascolto, eppure quella persona siete voi, nel vostro lato più vero... e non quello che "indossate" quando uscite, nel goffo tentativo di piacere agli altri. Scartiamo a priori i belli dentro e i brutti fuori per poi trovarsi a logorarsi in discussioni sterili... rimpiangendo chi bello non era ma che tante emozioni dava...
Ma è proprio vero che siamo così occupati ad apparire non pensando a dar voce al solitario che c'è in noi?

venerdì 16 novembre 2007

Ciao Nonno Giuseppe

Pubblico un articolo dell'amico Cristiano Gatti, su di un fatto di cronaca accaduto 8 mesi fa, ma passato in sordina. Lascio a voi le riflessioni del caso, ma permettetemi un saluto a nonno Giuseppe, che non conoscevo, ma che sicuramente non meritava una fine così nella SUA italia, per la quale aveva combattuto e lavorato.
Seviziato dai romeni muore dopo un calvario di 8 mesi
articolo di Cristiano Gatti
Si può dire sia finita la lunga agonia, non che il valoroso nonno di campagna riposi finalmente in pace. Non c’è pace, non ancora. Quando i compaesani cominciano ad arrivare in cascina Betulla, tutti quanti con la giacca scura e le scarpe buone, e mentre già in chiesa il parroco comincia a prepararsi con i chierichetti per il funerale, ecco arrivare sull'uscio di casa un'auto dei carabinieri. È già passata l'una, il funerale è fissato per le tre. I militari sono imbarazzati, ma devono compiere la loro missione. Sono qui a dire che il funerale non ci sarà, almeno per ora: il magistrato ha disposto altri accertamenti. Vuole capire se nonno Giuseppe sia davvero morto per le mazzate vigliacche di quella terrificante rapina in casa, la sera del 28 febbraio. La legge ha bisogno di perizie e di riscontri scientifici. Ma il giudizio popolare va molto più per le spicce, limitandosi a porre una domanda semplicissima: questo poveretto ha trascorso gli ultimi otto mesi della sua lunga e tribolata vita dentro e fuori dalla rianimazione, davvero qualcuno adesso può pensare sia morto di morte naturale, sereno come un angelo, per sopraggiunti limiti d'età? Mentre il parentado mormora davanti alla sua povera salma, in attesa che i carabinieri vengano a riportarsela via, sono molti i pensieri che sorgono spontanei. Il primo è doverosamente rivolto alla nostra strana sensibilità collettiva, che libera rabbia e sdegno a gittata variabile: per certi delitti, edizioni straordinarie e serrate nazionali, emergenze di governo e provvedimenti di massima urgenza. Per nonno Giuseppe, tutt’al più, solo un poco di pietà. Come se morire a 88 anni, dopo otto mesi d'agonia, per i colpi di mazza presi nella propria casa, sia in fondo meno increscioso e meno choccante che morire in un viottolo buio della periferia romana, per mano di un selvaggio spietato e senza Dio. No, non esiste. Tutte le efferatezze di quest'epoca violenta dovrebbero avere uguale risalto e uguale sdegno. Nonno Giuseppe è martire quanto la signora Reggiani, e anche quanto il medico milanese soffocato dallo scotch nel letto di casa. Questo nonno ha una storia perfettamente italiana, di quell'Italia grande e fiera che ci ha regalato benessere, comodità, pace. Basterebbe sfogliare il suo album di famiglia, per scoprirlo uguale agli album che tante famiglie ancora conservano nel cassetto del tinello. Il bambino Giuseppe (classe '19) che va subito a lavorare nei campi. Il ragazzino Giuseppe che deve partire per la guerra. Il soldato Giuseppe che torna sette anni dopo, stremato e piagato, miracolosamente scampato alla Sacca del Don. E poi l'italiano Giuseppe, che non si perde in lamenti e piagnistei, ma si rimbocca subito le maniche e fa ripartire il suo Paese. Il fidanzato Giuseppe che finalmente sposa l'amata Maddalena, e con lei sforna otto figli, quattro maschi e quattro femmine, perché una volta l'incertezza del futuro non metteva paura, anzi scatenava energia. E poi: il papà Giuseppe che è laborioso, generoso, devoto al Signore. Tanto che neppure quando il Cielo, 25 anni fa, gli rapisce l'adorata moglie, e neppure nel '92, quando gli porta via l'amato figlio Franco, in un incidente stradale, il patriarca Giuseppe si lascia andare sconfitto e vinto. Ancora una volta riparte, mandando avanti l'allevamento con i due figli rimasti in casa, trecento vacche da latte che sono un modello nell'intera zona... Da qualche anno, ormai, era solo il nonno Giuseppe di diciotto nipoti. Non potendo più sopportare lavori pesanti, teneva dietro all'orto e al pollaio. La sera, preparava la tavola e metteva su il minestrone per i due figli. Guardando qualche volta la televisione, davanti ai crimini e alle efferatezze di questa tetra stagione, si lasciava andare a un commento laconico: «Neanche in Russia ho visto cose del genere...». Aveva tutto per avviarsi tranquillo ai tempi supplementari della sua lunga partita, nonno Giuseppe. Era sereno. Si sedeva sulla panchina fuori dalla villetta, con vista sulle stalle, e ringraziava Dio per quanto gli aveva concesso. La meritava, una dolce fine nel suo letto. Invece, quella sera, si è trovato in casa tre odiosi criminali. Se l'ambasciatore romeno non si offende, va detto per dovere di cronaca che erano romeni. Una coincidenza, va bene. Ma conta poco. Conta come hanno infierito a colpi di mazza sul nonno d'Italia e sui due figli, e come poi li hanno legati alle sedie e li hanno buttati giù dalle scale. Tutto per settemila euro e due telefonini, che i padroni di casa avevano subito consegnato. Pare che i delinquenti si fossero alterati perché nessuno rivelava dove stava la cassaforte. Che non c'è mai stata. Da quella sera, nonno Giuseppe non s'è mai veramente ripreso. Prima in rianimazione a Brescia, quindi a Manerbio. Nel mezzo, un veloce ritorno a casa. Coperto di cicatrici, la testa ancora ferita, una paresi a bloccargli per sempre la parte destra. I familiari lo toglievano a peso dal letto e provavano a metterlo sulla sua panchina, sotto il portico, affacciato sulle stalle. Purtroppo, non è mai servito. Nonno Giuseppe era lucido a metà. Concedeva solo qualche timido sorriso, quando qualcuno gli faceva una carezza. Negli ultimi due mesi, non riusciva neppure più a parlare. Di quella sera, non ha mai ricordato nulla. Soltanto, nei mesi a seguire, ha continuato a cercarsi sul polso l'orologio, chiedendosi dove fosse finito. Non ha mai saputo che gli avevano rubato anche quello, la sera del 28 febbraio. Povero nonno Giuseppe. In attesa che gli concedano l'ultimo omaggio, un bel funerale di paese, tutti quanti con la giacca scura e le scarpe buone, qualcuno ha il dovere di concedergli la giustizia che merita. Anche a lui. Anche se aveva 88 anni. Anche se nessuno strillerà mai il suo nome in televisione

lunedì 12 novembre 2007

What women want

Che cosa vogliono le donne? Finalmente una sana riflessione un pò maschilista ad uso e consumo del macho, dell'uomo vero e virile. Che cosa vogliono le donne? Con loro o senza di loro, purtroppo è cosi, attratti inesorabilmente dal luogo da dove siamo usciti, possiamo riassumere il tutto nella frase: 9 mesi per uscire una vita per rientrare! Eppure, nonostante tutto, una volta conquistata la vetta, ci mettiamo a sedere ed iniziano i conflitti interni, discussioni, mancanza di comunicazione, routine. E non credo sia un problema nostro, perchè l'uomo sposato o accompagnato tende ad essere succube della donna che ha accanto per un problema genetico e generazionale. Certo, non bisogna generalizzare, ma la donna tende sempre a portare i pantaloni, anche se gli stanno male. Il film di Mel Gibson, peraltro da vedere, parla di un uomo che ha la capacita, fortuna o sfortuna, di leggere nel pensiero delle donne, un arma micidiale, ad uso e consumo del maschio, che anticipandone le mosse, si relaziona con ogni donna li capiti a fianco. Spesso le relazioni tra uomini e donne, "non nascono" per mancanza di comunicazione. Quante volte abbiamo pensato "guarda quello/a, belloccio, quasi quasi lo invito a ballare o a bere", e poi non l'abbiamo mai fatto? Perchè se è vero che l'uomo nasce cacciatore, la donna non è quasi mai preda. E allora cosa si caccia, l'aria? Le donne più belle e divertenti che ho conosciuto, sono state quelle che si sono fatte cacciare, cacciando a sua volta, una battuta io, una loro, un complimento io un complimento loro. Bisogna mettere da parte i cacciatori e cacciati, mezze battute e mezze verità, sono il sale dell'inizio di un rapporto che può sfociare nell'erotico, nell'intellettuale, oppure solamente davanti ad un aperitivo. Le donne diranno: "siete voi che non capite!" e gli uomini rispondono: "ma se non ce la date mai!?!". Discussioni asettiche, prive di contenuti che non porteranno mai a niente. Uomini!: tutto si riduce ad un mero rapporto sessuale? Donne!: siamo ancora così bigotte da non esternare un benchè minimo complimento o una tacita affermazione di compiacimento? Se io vi mando una rosa, non dovete pensare per forza male, è una rosa, simbolo della bellezza, basterebbe un grazie o un altro segno di vita, non un usciata o un silenzio infinito. Oggi disponiamo tante forme di comunicazione, che non è più necessario "vedersi" per rifiutare galantemente un invito. Oppure nell'altra ipotesi, se la rosa è ben accetta, perchè non ricontraccambiare, invece di tenersi dentro un sentimento che potrebbe sfociare in un primo incontro a lume di candela, perchè non vedevate l'ora che succedesse? Le super donne e i super uomini gli abbiamo creati noi, escludendo dalla rosa dei candidati la gente comune, il ragazzo della porta accanto, che se si vestisse con abiti firmati e look alla moda, forse non sarebbe poi neanche tanto male... Che cosa volete, ragazze e donne, dall'uomo che vi sta accanto, o che incontrate al bar o al ristorante?

venerdì 9 novembre 2007

Sesso, amore e passione

Vi siete mai fermati a riflettere su cosa sono il sesso, l'amore, la passione, la stima e il rispetto e se sopratutto queste cose possono coesistere all'interno del rapporto di coppia? Certo per i single è più facile rispondere, ma loro hanno un altro dilemma: troverò la persona giusta, mi fermerò un giorno? Vavixxx ammira le persone anziane che ancora stanno insieme e lo definisce "amore di altri tempi", ma secondo voi, loro si sono persi qualcosa a giurarsi fedeltà eterna? Ho sempre considerato le corna come il morbillo, una malattia che prima o poi bisogna prendere, meglio da ragazzi perchè da adulti reca più danni, comunque una fase della vita dove il sentimento nutrito verso la persona che ci sta accanto viene meno, e troviamo in altri quella scintilla, e quel fuoco per far continuare ad ardere il nostro camino. Babi, e prima di lei Venditti, dice che non c'è sesso senza amore e viceversa... Diversamente da tanti uomini, non ho mai fatto sesso senza amore, non ho mai donato la mia nudità ad una amante occasionale, ho sempre preferito idealizzare nella mia mente un incontro virtuale piuttosto che andare a fondo con una persona bella d'aspetto ma brutta nei contenuti. Che ce ne facciamo delle macchine del sesso? Donne bellissime, stalloni belli come adoni, ma freddi come un frigorifero... Un colpo e via è la voce di popolo che serpeggia nella città, una persona di cui non ricordi neanche il nome al quale gli hai donato la tua parte più intima... L'equazione sesso e amore allora ha una soluzione? Campanaro la vede più come una gabbia, indipendentemente dal tempo che ci stai dentro, due persone si amano fino a saziarsi per poi riposare insieme... Io in quella gabbia ci sono stato svariate volte, anzi tutte le volte che ho donato me stesso, e mi ricordo dei volti e dei momenti che hanno sancito attimi bellissimi, e mi hanno fatto diventare quello che sono oggi. Il lato negativo è che voglio sempre di più, voglio l'amore vero, quello che nasce da una carezza, quello che ti fa vibrare quando diventi tutt'uno con l'altra persona... Sempre più spesso ci chiudiamo o riccio e non sentiamo, non vediamo dentro gli altri, e allora l'incontro scade in una banale serata fatta di una cena, finendo distesi su un letto, senza chiederci il perchè, usando solo il corpo e neanche un briciolo d'anima...
Sesso, amore e passione, impariamo a leggere negli altri, tiriamo fuori un pò di noi in cambio di un pò di loro, scopriamo le voglie recondite, riveliamo la nostra bellezza interiore e trasformiamo le carezze in gesti erotici, e solo allora potremmo godere di noi... moglie, marito o amante che tu sia...

mercoledì 7 novembre 2007

Pubblico un commento di Campanaro

Svariati i commenti al post precedente ai quali risponderò con un altro post, che spero sia sempre motivo di riflessione. Di seguito il commento di "Campanaro" che merita una lettura, condivisibile o meno, ma poeticamente perfetta! Grazie internauta!
Amore è un mistero-amore è un dilemma, un dubbio irrisolto...
Amare per se stessi o perchè l'altro ti ami, come e più di te,
od entrambe le cose?
Amore che vuoi quando non l'hai
e non sei sicuro di averlo trovato quando quando lo vivi
...mai abbastanza...quando lo uccidi e quando lo rifuggi....
Amore è una poesia che senti dentro ma che non riesci mai a scrivere....
è troppe parole su un foglio accartocciato e gettato nel cestino.
Sono le parole giuste che ti mancano o ti neghi al momento giusto....
Amore è avere poco in cambio di molto.
E' desiderare sempre quel poco, un abbraccio, un bacio, una carezza
per accorgerti che è tutto....
Amore è una gabbia che mi opprime ma che è sempre il mio rifugio,
dove voglio che tu mi chiuda per sopire la ferocia che è in me.
Stringimi le mani... e la belva sarà doma, appagata di quel misero pasto....
sazia del tuo amore..che ricambierà.
E saremo in due in quella gabbia che diventerà il nostro immenso tutto.....

lunedì 5 novembre 2007

Sex and the city, ovvero il mondo e il sesso.

Da dove iniziare? Da un inciso pecoreccio "tira più un pelo di .... che una coppia di buoi"? Banale e scontato, ma in realtà e cosi. La storia del mondo basata sugli epici conflitti, come narrato anche dai poeti più lontani, parte dall'amore in senso assoluto, idealizzato negli occhi di principesse, zingare, semplici contadine, mercanti di sesso. Amori vissuti in silenzio, amori gridati al mondo, amori scritti nelle poesie, nei racconti, nei film, o più semplicemente nati e sopiti nell'incrociarsi in una via del centro.... Le città sono il luogo ideale per l'osservazione del comportamento tra uomini e donne; la moltitudine di persone, i luoghi dove incontrarsi, lo scambio continuo di informazioni, fanno si che i grandi centri urbani siano un laboratorio di analisi, dove in ogni momento si celebra un rito.... Ebbene, io domando a voi, internauti, novelli Marco Polo della rete, che circumnavigate il mondo su di un cavo elettrico, alla ricerca spasmodica del Santo Graal, rappresentato dal vostro ideale di donna e di uomo, che usate gli sms o le email, i nuovi strumenti di comunicazione che hanno sostituito la carta, il piccione viaggiatore, il portalettere, ma con all'interno sempre la poesia, il verso, la frase erotica, che cosa è il sesso? Come dovrebbe essere l'amore? Che cosa lega l'uomo alla donna e viceversa, che cosa abbiamo realmente in comune, ed esiste un punto di equilibrio? I vostri commenti saranno il punto di partenza per i prossimi post.

Ecco le 101 scoperte più importanti

di Vittorio Sgarbi
Il water non lo so (nell’antichità c’era qualcosa di simile per consentire di stare seduti comodamente, rispetto alla barbara posizione «alla turca»), ma il bidet manca nella lista delle 101 invenzioni di cui l’uomo non può fare a meno, indicate dall’Independent, dal fuoco fino all’iPod. Come sappiamo gli inglesi non fanno generalmente uso del bidet. Ma è una lacuna veniale tra le comodità irrinunciabili che in larga misura non sono brevettate e non hanno autori conosciuti. Sono espressione del genio degli anonimi. E sono di sorprendente utilità. Dall’arco alla biro, dal filo spinato alla bicicletta, dagli occhiali allo spazzolino da denti, dalla ruota alla siringa. Sono irrinunciabili. Ma certamente hanno cambiato il costume, oltre ogni aspettativa, invenzioni come la carta di credito, che ha trasferito il danaro in una dimensione immateriale, allontanandone la immanente sensualità, la forza di seduzione psicologica già trasferita dal metallo alla carta e poi agli assegni. Il danaro sta, così, sempre altrove, non serve più se non per pagare, clandestinamente, riscatti; e lascia traccia del suo spostamento da una tasca all’altra. Altrettanto rivoluzionaria, cambiando natura alle cose, è la trasmissione di messaggi attraverso un supporto non cartaceo, il cui residuo era ancora nei fax, con l’invenzione degli sms. Come si spende più danaro con le carte di credito che con le monete, così si scrive di più con lo scambio infinito di messaggi telefonici rispetto a quello epistolare. E poi ci sono invenzioni più remote di quanto non siamo usi pensare, come il profilattico, inventato nel 1640 (mentre per la pillola occorre aspettare il 1951). Può sembrare strano ma il reggiseno è stato inventato soltanto nel 1913, anche se forse in passato la sua funzione era «sostenuta» da stecche. Fra le altre innovazioni che cambiano i modi di vivere e il rapporto con il tempo c’è certamente l’aereo, che avvicina i luoghi più lontani, che consente di irrompere in mondi remoti e inevitabilmente incomunicanti, così come, in altro modo, il telefono, forse la più «umana» delle invenzioni. È evidente poi che una civiltà che non abbia il frigorifero si condanna a comportamenti primitivi, non potendo conservare gli alimenti e costringendo alla ricerca del cibo per la sopravvivenza giorno per giorno. Vi sono poi invenzioni sostitutive, ma non al punto da eliminare le analoghe precedenti: così il rasoio elettrico non ha soppiantato quello a lama e a lamette e l’aspirapolvere non ha eliminato la scopa. Più rivoluzionario, tanto da eliminare il contatto diretto con l’apparecchio, è il telecomando. Inessenziale, dal momento che si perde sempre, benché utile, è l’ombrello, ingegnosa invenzione più per salvare la pettinatura e gli abiti, che per riparare dalla pioggia. Il Novecento è certamente il secolo che si è più applicato in invenzioni di utilità quotidiana, dalla cerniera lampo del 1913 al pace maker al codice a barre per favorire i pagamenti, al tostapane, alla televisione, al computer fino a internet, serbatoio universale che sembra voler competere addirittura con le biblioteche accogliendo un sapere universale senza confini. La tastiera per trovare notizie e per trasmettere comunicazioni ha reso completamente inutile un’altra importante invenzione come la macchina per scrivere, che non consentiva di annullare l’errore ma solo di cancellarlo meccanicamente. È questo ciò che rende essenziale e inevitabile un’invenzione. Un passo avanti. In altri casi esso è impossibile: come per i guanti, le scarpe, la ruota. La conclusione era già chiara ai Futuristi: nessun artista vale quanto l’inventore dell’automobile.

lunedì 29 ottobre 2007

Mallory, Hillary e l’Everest: un mistero quasi risolto da Conrad Anker


Hillary e Tenzing furono davvero i primi alpinisti a violare la vetta del "Tetto del Mondo" nel 1953? Oppure, davanti a loro, 29 anni prima, vi erano giunti Mallory e Irvine? A questi e altri interrogativi ha cercato di dare risposta l’alpinista americano Conrad Anker durante la serata del 10 febbraio 2000, organizzata da The North Face, Ronco Alpinismo e la Sezione Uget Torino del CAI presso il Centro Congressi della Camera di Commercio di Torino.
Un foltissimo pubblico ha seguito con attenzione e interesse la proiezione di diapositive presentata da Anker, grazie alla quale gli spettatori hanno potuto seguire passo a passo le tappe della "Mallory & Irvine Research Expedition", diretta da Eric Simonson, che nel maggio del ’99 ha ritrovato i resti di Mallory, l’alpinista inglese scomparso l'8 giugno 1924 insieme al compagno Irvine durante il tentativo di salita all’Everest. George Leigh Mallory, 37 anni all’epoca dei fatti, padre di tre figli, si era diplomato a Oxford ed era maestro di scuola. Amico di Virginia Woolf, la celebre scrittrice, membro di uno dei più importanti circoli letterari londinesi, era un uomo colto e raffinato. Alpinista e scalatore di prim’ordine, costituì, già ai suoi tempi, una figura molto moderna. Aveva già preso parte alle precedenti spedizioni del 1921 (durante la quale svolse numerose ricognizioni volte ad individuare una via praticabile) e del 1922 (interrotta per il sopraggiungere della stagione dei monsoni e per una valanga che causò la morte di sette Sherpa).
Andrew "Sandy" Irvine, 22 anni quando scomparve, molto forte e molto tecnico, ideò una modifica al sistema di erogazione dell’ossigeno degli apparati in uso all'epoca, che permise di ridurre di 2 kg il peso dell’attrezzatura. Per questa ragione Mallory lo volle con sé durante la sfortunata spedizione del 1924, anche se non aveva ancora maturato molta esperienza. Conrad Anker, amico di uno dei nipoti di Mallory, ha fatto parte della missione di ricerca – quasi una spedizione archeologica dell’alpinismo - che aveva lo scopo di risolvere il più affascinante giallo alpinistico di tutti i tempi: i due inglesi perirono prima o dopo aver raggiunto la vetta?
Anker è colui che ha materialmente rinvenuto i resti di George Mallory e che ha ricostruito gli ultimi movimenti della cordata sviluppando una plausibile teoria sulla sequenza della tragedia. La "Mallory & Irvine Research Expedition" ha ripercorso fedelmente le tracce della spedizione inglese del 1924 (che, tra l’altro, individuò già nel 1922 la via tutt’oggi più frequentata del versante settentrionale, quella del Colle Nord) ponendo i campi negli stessi punti ove erano stati installati 75 anni prima. L’8 giugno 1924, Mallory e Irvine partirono dall’ultimo campo per entrare nella leggenda. Furono avvistati per l’ultima volta da un altro membro della spedizione (Odell) intorno alle 13.10 e non sembravano avere particolari difficoltà. Dopo di che, scomparvero. Purtroppo, negli anni la testimonianza di Odell si è rivelata imprecisa e (in buona fede) contraddittoria: infatti, non è dato di stabilire con precisione presso quale passaggio - chiave furono avvistati, il Primo o il Secondo gradino.
La questione è fondamentale, indipendentemente dalla difficoltà tecnica del Secondo gradino (per inciso, dopo aver fatto una prova con attrezzatura dell’epoca, Anker ritiene estremamente improbabile che sia stato superato dai due inglesi, dato l’equipaggiamento ed il peso e l’ingombro delle apparecchiature per l’ossigeno). Siccome l’orologio rinvenuto sul corpo di Mallory, presumibilmente fermatosi a seguito della caduta, segnava le 14.25, se Odell avesse avvistato (erano le 13.10) i due alpinisti presso il Primo gradino, essi non avrebbero avuto il tempo materiale di compiere la salita prima dell’incidente; se, invece, l’avvistamento fosse avvenuto presso il Secondo gradino, forse il tempo ci sarebbe stato…
Anker sostiene, mostrando al pubblico una sua ricostruzione fotografica, che Odell, per effetto della prospettiva dal suo punto di osservazione, vide sì i due alpinisti in cresta, ma presso il Primo gradino. Lo stato del corpo di Mallory, la sua posizione e la sua postura indicano che la caduta è avvenuta da un punto compreso fra il Primo ed il Secondo gradino, prima della cosiddetta "fascia gialla", e neppure da tanto in alto: salvo una frattura al piede destro, Mallory non presentava lesioni significative, per cui è lecito ritenere che la morte non sia sopraggiunta per evento traumatico. Secondo Anker, il punto di ritrovamento - anche considerando i naturali movimenti degli strati nevosi - indica che la caduta è avvenuta durante la salita e, quindi, prima d’aver raggiunto la cima. Mallory era ancora legato e quanto resta della corda, circa 10 m, presenta uno strappo: segno evidente che i due alpinisti sono caduti insieme e che non si erano separati, come ipotizzato nel corso degli anni.
Mallory, per espresso volere della famiglia, è stato tumulato sul posto, sulla montagna che voleva scalare semplicemente "perché è là", come una volta rispose ad un giornalista durante un giro di conferenze negli Stati Uniti. Durante la cerimonia è stato letto il Salmo 103, che Anker ha riproposto al pubblico torinese in memoria di tutti i caduti della montagna.
In definitiva, i risultati ottenuti dalla spedizione aggiungono molti particolari al mistero, attenuano alcune ombre, ma non portano la luce definitiva che solo il ritrovamento della macchina fotografica avrebbe potuto fornire. Per i cultori delle ipotesi la materia è particolarmente fertile: l’orologio segnava davvero le 14.25 o piuttosto le 17.10? Gli occhiali da ghiacciaio ritrovati in tasca della giacca erano una dotazione di scorta o Mallory li aveva tolti? Per la nebbia o per il buio? Era davvero il cadavere di Irvine quello rinvenuto nel 1975 da un alpinista cinese, poi a sua volta scomparso? E se la macchina fotografica l’avesse avuta proprio il giovane "Sandy"? Non avendo le risposte, noi alpinisti del XXI secolo dobbiamo comunque, come fece Anker al momento del ritrovamento sedendosi accanto al corpo, pensare a Mallory ed Irvine "con profondo e reverenziale rispetto per quanto furono capaci di fare, indipendentemente dall’aver raggiunto o meno per primi la vetta dell’Everest". Il resto è leggenda ed è bello che sia così: dopo tanto tempo, essa continua ad affascinare e alimenta il bisogno di sconosciuto che c’è in ogni alpinista.

Everest




Il mio primo post di questo blog era dedicato all'Everest. Recentemente ho detto "che per te conquisterei l'Everest". Incredibile, anche se non sono un alpinista, sono attratto e affascinato da cio che riguarda la montagna più alta del mondo. Essendo curioso per natura sono andato a scartabellare un pò di cronaca al riguardo ed ho trovato la lettura letteralmente affascinante. Pensate che durante l'arrampicata possiamo imbatterci in molti corpi, stimati intorno alle 192 unità. Non hanno un nome, ne un cognome, e la maggior parte di essi, non sono sherpa, ma bensì uomini facoltosi o aiutanti di essi che hanno trovato la morte nel tentativo di aver scalato il tetto del mondo. Ma chi ha iniziato questa corsa verso l'alto? Sicuramente il più rappresentativo e forse il vero eroe non è Sir Hillary, che le cronache lo danno come il primo ad aver raggiunto la vetta, ma George Mallory e Andrew Irvine che perirono nel tentativo nell'Aprile del 1924. Nel 1999 un spedizione dedicata al ritrovamento e a far luce su quanto accadde quella mattina, ritrovò su di un versante della montagna, il corpo di Mallory, sicuramente slittato in quel luogo dopo una lunga caduta. Ebbene, immaginatevi per un attimo il 1924, senza Gore Tex, senza materiali sintetici, senza GPS, senza tutta la tecnologia che oggi abbiamo. Immaginatevi, le sciarpe di lana, gli indumenti di cotone, gli occhiali scuri, gli scarponi di cuoio, le tende di barbour o simili, e due uomini che prima del sorgere del sole si sono incamminati verso la conquista della cima. L'altro della spedizione Odell che li lascio a circa 300 mt dalla vetta, li vide stagliati verso il cielo sereno, con il passo deciso, e niente li avrebe fermati. Quello che è accaduto dopo è soltanto leggenda, e forse ci piace credere che sia così, e lasciare a Sir Hillary il nome del primo ad aver visto il mondo dall'alto, e a noi inguaribili romantici, credere che 30 anni prima, qualcuno, con meno clamore, con meno tecnologia, possa aver raggiunto la vetta pagando il pegno di aver lasciato le sue spoglie mortali a testimonianza della sua impresa. Sir George, Sir Andrew, grazie del vostro coraggio, grazie delle vostre gesta che ci sono arrivate fino a noi, in un mondo totalmente diverso da quello che avete lasciato, ma non migliore della lana e del cotone che con semplicità vi hanno condotto verso la storia.

lunedì 22 ottobre 2007

Un amica



Ho sempre considerato l'amicizia una cosa molto delicata e mi sono sempre limitato a dire amici pochi conoscenti tanti. Si perchè oggi noi tendiamo a essere amici nella nostra società ma qual'è il significato vero dell'amicizia? Chi è l'amico/a? Cosa fa una persona per essere considerata tale? Possiamo considerare il rapporto uomo donna anche come amicizia?
Stamani ho ricevuto una email da una mia amica o conoscente che dir si voglia, che non vedo da un pò di tempo ma ogni tanto ci scriviamo. Come in ogni rapporto epistolare, anche a seguito di una mia missiva, lei scrive impressioni, crea un profilo su quello che siamo stati fino ad adesso e poi mi lascia con una domanda: "si può dire ti voglio bene"?
Premesso che fra me e lei non ci sono mai state situazioni intime se non sane chiaccherate davanti ad un buon bicchiere di vino, è così compromettente dire ad un amico una frase senza cadere nella trappola del pensar male o del c'è stato qualcosa? Mi sono sentito lusingato da questo, perchè il bene, quando detto così, è un bene vero, che nasce da una stima verso una persona, e non chiede niente in cambio. Il bene, come l'amore, è come un diamante, "...è per sempre....". Ed anche se poi i rapporti finiscono, si modificano, si rompono in maniera brusca, dove va a finire tutto l'amore, la passione, tutto il bene? Io ho avuto diverse storie che mi hanno segnato, tra cui un matrimonio all'epoca finito non tanto bene. Ma oggi, che sono passati degli anni provo ancora amore per quella persona, che ho portato all'altare, davanti a Dio, facendo delle promesse che poi non abbiamo mantenuto. E' un amore diverso, ma è sempre amore o bene che dir si voglia. Ricordiamoci per un momento le prime uscite con una persona che poi abbiamo amato. Cenetta a lume di candela, fiori, mano nella mano, poi nel degeneramento della serata, ti amo, ti voglio etc. E cosi avanti per un bel pò di tempo. Poi i primi screzi, le prime incomprensioni, e l'amore si affievolisce, fino a diventare routine, anzi, alla prima occasione si cerca di far valere il sacrosanto diritto di avere ragione. Poi se va male ti trovi in un tribunale dove conduci battaglie per una manciata di euri, e non ti ricordi più quelle promesse iniziali che tanto sapevano di buono, ma che in realtà erano atteggiamenti atti a circuire la fonte del proprio piacere. Si lo so, sembro amareggiato, vittima di una separazione triste, ed invece no! Sono un uomo felice che ha amato e ama tutt'ora, anche le persone che oggi hanno preso strade diverse, alle quali detti parte del mio cuore e non l'ho mai rivoluto indietro. E allora ben vengano le persone che non si vergognano di donare del bene, perchè è come metterlo in cassaforte... Quindi mia dolce amica, anch'io ti voglio bene, e mi dispiace se ci vediamo una volta ogni tanto, ma si sà il bene non ha tempo ne confini e regna nei cuori delle persone sagge....

sabato 20 ottobre 2007

Prove di secessione, Bolzano cancella 8mila nomi in italiano

di Cristiano Gatti

L’Alto Adige dirà addio al bilinguismo: valli, monti, contrade e fiumi avranno solo il nome tedesco. Il presidente della Provincia Durnwalder: "Nessuno parla più l’idioma nazionale"
Servirà un po’ di tempo. Servirà anche un buon logopedista per sciogliere i nodi della lingua e rendere agile la dizione. Ma alla fine tutti quanti dovremo chiamare la Vetta d'Italia col suo vero nome: Glockenkaarkofl. Così sarà sulle cartine geografiche, sui cartelli stradali, sui libri di scuola, sui documenti ufficiali. Forza, provare. Cosa sarà mai: Glockenkaarkofl. Dovremo farci l'abitudine e l'orecchio: presto, una legge dell'Alto Adige eliminerà per sempre la versione che piace a noi. Assieme alla Vetta d'Italia, saranno abbattuti altri ottomila nomi in lingua tricolore. Ottomila sui novemila esistenti.Sopravviveranno in doppia versione solo i Comuni. Il resto della geografia locale - cime, torrenti, boschi, masi, valli e contrade - avrà solo nomi e cartelli tedeschi. La Val Fiscalina, dove l'altra settimana s'è sbriciolata mezza montagna: Fischleinthal. Il Maso Corto, ben noto agli sciatori per la sua pista leggendaria: Kurzhof. E l'ormai famoso Plan de Corones, che si portava dietro la sua gloriosa storia latina e ladina: niente da fare, sarà una volta per tutte Kronplatz. Devo un'avvertenza: può darsi che nella trascrizione abbia infilato qualche sfondone. Chiedo subito scusa. In questo strano luogo d'Italia, che qui orgogliosamente chiamano Sud Tirol, non sempre hai sottomano un interprete.Siamo alle ultime fasi del progetto: nell'indifferenza babbea e indolente dello Stato sovrano, stanno ricostruendosi una piccola Austria. È il bricolage dell'autodeterminazione, che ormai va avanti da un secolo. Si pensava allora, alla fine della Grande Guerra, che dopo un paio di generazioni tante velleità autonomiste si sarebbero via via stemperate. Invece, un secolo dopo, è pure peggio. I nipoti stanno realizzando il sogno dei nonni sconfitti: ripristinare l'Austria là dove una guerra l'aveva sfrattata.Inutile ripercorrere la storia dei trattati e dei tralicci, una storia che comunque ha portato in questi luoghi tanti privilegi e tanto benessere. A questo punto interessa soltanto l'ultimo capitolo. O «l'ultima questione irrisolta», come la definisce l'indiscusso sovrano del dorato reame, quel leggendario presidente della Provincia, nonché pezzo grosso del Südtiroler Volkspartei, che risponde al nome di Luis Durnwalder. In termini tecnici, si discute della toponomastica. Cioè i nomi geografici. Di tutte le materie affrontate nei vari trattati per l'autonomia, nettamente la più ostica ed esplosiva. Perché la più simbolica. Perché mette in gioco l'identità del popolo, che qui da troppi anni cammina in bilico tra le rivalità etniche. È come mettere d'accordo i nonni sul nome del nipotino: un affare in sé effimero e impalpabile, ma capace di scatenare furibonde guerre familiari.Qui, da quasi cent'anni, cartelli stradali e carte geografiche vengono fatti e rifatti. Prima del Novecento domina il tedesco, poi arriva Mussolini e impone l'italiano, quindi si arriva nell’ultimo Dopoguerra alla mediazione del bilinguismo. Ogni nome ha due versioni. Un principio che sembra di massimo rispetto. Che non mortifica nessuno. Tant'è vero che viene continuamente richiamato in tutte le leggi e in tutti i trattati di questa incredibile e interminabile contesa.Però c'è un però: l'ultimo Statuto per l'autonomia, del ’72, lascia al governo locale il compito di riordinare la toponomastica, fatto salvo il principio del bilinguismo. Guarda caso, fino ad oggi tutti se ne sono guardati dal mettere il piede sulla mina. Ora, l'ardimentoso Durnwalder si accinge a farlo. Il suo partito ha pronto un disegno di legge, che ovviamente in sede di votazioni passerà a mani basse, avendo il gruppo Svp da sempre la maggioranza assoluta in consiglio provinciale. Che cosa preveda il piano, più o meno, ho già detto: dopo un certosino lavoro di riordino, ottomila nomi in lingua italiana spariscono dalla circolazione. E dalla memoria. Ottomila su novemila, meglio ribadire. Come dice il presidente provinciale di An, Alessandro Urzì, «dopo la pulizia etnica, siamo alla pulizia toponomastica».Il geniale Durnwalder ha in mente un criterio perfetto. Dice: per sapere se abbia ancora senso tenere in vita un nome, italiano o tedesco che sia, bisogna solo vedere se la gente lo usa. Dunque, si andrà a chiedere di villaggio in villaggio quali nomi vengano usati realmente. Perché il nome sopravviva, italiano o tedesco che sia, deve essere familiare ad almeno il venti per cento della popolazione di quel luogo.A prima vista, sembra persino equo: in sostanza, sopravvivono i nomi usati e muoiono quelli che nessuno usa. Nobilissimo. Se non fosse che il criterio contiene un meccanismo diabolico: da queste parti, ormai, i tedeschi sono il settanta per cento. Pochissimi, in giro per le vallate, i paesi dove gli italiani arrivano al venti per cento. Chiaro l'effetto pratico: saranno pochissimi i paesi in cui il venti per cento riuscirà a salvare il mome italiano. Se non suona troppo brutale, il progetto di Durnwalder va definito in un modo molto semplice: è una saporitissima polpetta avvelenata.Guarda caso, in zona tira già aria da guerra santa. Da tempo i toni non erano così esasperati. Spiega ancora Urzì, che ha avviato una petizione popolare: «Fuori, la gente fatica magari a capire tanta tensione su una questione formale. Ma nessuno deve mai dimenticare che nei nomi ci sono la storia e la cultura di un'identità: perso il nome, è persa la memoria. E qui di tutto abbiamo bisogno, tranne che di questo. Durnwalder vuole riportare indietro le lancette della storia: di un secolo». Sempre sul fronte Polo, Forza Italia ha presentato un'interrogazione parlamentare, firmata da Michaela Biancofiore. Ma la difesa dei nomi italiani non è esclusivo affare di versante destro: come si dice, è allarme trasversale. I Verdi, da queste parti fortissimi, così si esprimono per bocca di Cristina Kury, che pure è di etnia tedesca: «Presenteremo una nostra proposta. Il principio assoluto, che non si tocca, resta il bilinguismo. Punto. Durnwalder non può aprire una simile questione a un anno dalle elezioni. Se lo fa, è per ricompattare sull'orgoglio il gruppo tedesco. E forse anche per sfruttare il suo grande momento a Roma: tre senatori Svp tengono in vita Prodi, possono chiedere qualunque cosa...».Da parte sua, il presidente Durnwalder sembra sguazzare a proprio agio in questo brodo primordiale del muro contro muro. In diverse occasioni, non esita a manifestare pubblicamente tutta la sua determinazione ad andare fino in fondo. «Quello della toponomastica è un nodo irrisolto, voglio chiudere in tempi brevi. Le preoccupazioni degli italiani? Se viene cancellato un nome che non si usa, non si perde nulla». A un cronista locale che giorni fa gli faceva notare l'inghippo della legge, questa la risposta: «Non capisco il problema. Se in un paese la maggioranza è tedesca e si usa solo la versione tedesca, al gruppo italiano non si toglie niente». Una dedica anche a Ettore Tolomei, lo studioso che nel secolo scorso mise a punto un elenco delle denominazioni storiche di questi luoghi: «Quel pazzo ha cambiato i nomi originari, imponendo nomi di fantasia. Reinswald è diventato San Martino, Obereggen è San Floriano. Ma se chiami un'ambulanza per San Martino o per San Floriano, i soccorritori non arriveranno mai...».È facile prevedere: se Durnwalder non fa marcia indietro, presto l'Italia si fermerà a Trento. Qui, un domani, l'impronta nazionale resterà riconoscibile soltanto nei fondi pubblici che l'indefesso Stato sovrano continua a inviare. Per dovere di cronaca, non va comunque ignorato come Durnwalder sia disposto ad aperture, secondo quanto dichiarato recentemente: «Intendiamoci: se poi un italiano, in privato, vorrà usare il nome italiano, potrà farlo. Non sarà la versione ufficiale, ma potrà farlo...». Gli va riconosciuto: è molto umano.

venerdì 19 ottobre 2007

A me i francesi stanno un pò li, però...

Ieri un bel po’ di lavoratori francesi hanno scioperato contro Sarkozy. Il presidente Sarkozy non si è fermato e non si ferma perché pensa che le sue riforme facciano il bene dei francesi. Anche di quelli che hanno scioperato. Avant? Contro cosa hanno scioperato? Il presidente vuole superare gli attuali regimi speciali pensionistici che riguardano molti del settore pubblico. In particolare vuole portare da 37,5 a 40 gli anni di contributi necessari per andare in pensione. Siccome in pochi cominciano a lavorare prima dei vent’anni, tutto questo vuol dire che in Francia si andrà in pensione dai sessant’anni in poi. Altro che scalone e scalini. Vi immaginate, in Italia, un presidente che propone una cosa e la porta avanti nonostante tutto e tutti? Per noi è come parlare di un altro mondo. Il nostro governo ha la stessa vivacità di un serpente chiuso in un rettilario. L’avete presente? Lo infastidisce il movimento. Più sta fermo, meno fa e più dura. Ricordate quando il centrodestra fece la riforma del lavoro che portava il nome di Biagi? Biagi non c’è più. Lo ammazzarono perché aveva ispirato quella riforma. Nicolas Sarkozy procede in modo spedito perché ha i poteri per farlo. Il centrodestra provò a dare questi poteri al premier con una riforma, ma il referendum lo bocciò perché la sinistra non volle farla. La sinistra non ha bisogno di un premier forte, ha bisogno di una colla forte, una sorta di Attack per parlamentari che li tenga incollati da una parte alla sedia e dall’altra a Prodi. Nicolas Sarkozy procede spedito anche perché ha un progetto chiaro e sa che vuole portare la Francia al di là del fiume su una sponda sicura. Per questo non è intimorito dal guado. Conta che i francesi capiscano, magari non subito, che quello che sta per fare sarà fatto nell’interesse della totalità dei francesi e non di questa o di quella categoria. In Italia il nostro professor Prodi parla spessissimo di bene comune. Fino al disgusto. E poi si occupa solo del bene di questo o di quello, che, alla fine, gli fanno più comodo del bene comune. Ma questo è il centrosinistra e, ormai lo sappiamo, non potrà mai seguire la lezione di Sarkozy. Del resto dopo l’elezione si sono accodati, ma avrebbero preferito che vincesse la Royale. Può servire la lezione Sarkozy al centrodestra? Pensiamo proprio di sì, per due motivi: il primo, sul quale al momento il centrodestra non sta lavorando, è quello della costruzione di un programma chiaro, corto e preciso; il secondo è che bisognerebbe che imparasse a fidarsi un po’ di più del blocco sociale che lo sostiene, che è maggioritario, e si occupasse un po’ meno dei mormorii, borbottii e urla della piazza. Nella piazza non ci stanno tutti gli italiani, ce n’è solo una parte, gli altri stanno a casa e memorizzano tutti gli errori commessi da Prodi.

martedì 16 ottobre 2007

Io, bistrattato a Roma e osannato a Tokio

di Gabriele Villa
E così la terapia anti-cancro del medico più bistrattato d'Italia adesso è un affare giapponese. Facciamo finta che sia solo colpa di un pressante invito e non del totale disinteresse dell’Italia verso uno dei tanti buoni cervelli che possiede.Fatto sta che chi conosce, almeno un poco, il dottor Silvio Buzzi, sa bene che lui, il modesto e restio, neurologo settantasettenne di Ravenna, ha dovuto accettare: è salito su un aereo e, in Giappone, ha spiegato ad un auditorio di medici e ricercatori la sua terapia anticancro. In buona sostanza, una versione pedagogica bis, approfondita e dettagliata, della full immersion che, in maggio, aveva regalato a una delegazione di scienziati nipponici che gli aveva fatto visita a Ravenna. Per ascoltare, per valutare i suoi dati. Per dare, su ordine del governo di Tokio, consapevolmente spazio e credito, a un medico italiano cui da trent'anni, in Italia, sbattono la porta in faccia solo perché ha avuto un'intuizione sorprendente.Dottor Buzzi, ci racconti come si è arrivati a questa svolta...«Diciamo che i colleghi giapponesi non mi hanno, in senso affettuoso, naturalmente, dato tregua dopo il nostro incontro a Ravenna. Perché nei mesi di giugno e luglio il professor Mekada, capo del gruppo di ricerca sul Crm 197, scienziato di statura mondiale, mi ha inviato ben quattro inviti a recarmi in Giappone per partecipare a un meeting fra il gruppo di ricerca, che voleva passare dalla sperimentazione animale a quella clinica, e la commissione che avrebbe dovuto giudicare la bontà del progetto ed, eventualmente, finanziarlo».Motivo di tanta insistenza?«La ragione di un invito tanto insistente era che la squadra giapponese ha al suo attivo solo un lavoro eseguito sul topo trapiantato con tumori ovarici umani. In quel caso il Crm 197 inoculato a questi animali aveva bloccato totalmente la crescita dei tumori. I dati di questo lavoro sono stati pubblicati nel 2004 su Cancer Research. Ma la Pmda, Pharmaceutical medical devices agency, organizzazione governativa giapponese con la quale il gruppo di ricerca si era già incontrato già tre volte, sosteneva che il passaggio dal topo all'uomo era troppo brusco e consigliava di affrontare altre prove su animali superiori. I colleghi hanno allora parlato della mia sperimentazione clinica in Italia sostenendo che avvalersi della mia esperienza avrebbe accorciato i tempi per sperimentare la nuova terapia». Quindi volevano arruolarla, perché spiegasse dati e risultati ottenuti...«Ammetto che ho più volte resistito all'invito preoccupato dalla lunghezza e dall'asperità del viaggio, ma inutilmente. Il 29 agosto la Research foundation for microbial diseases dell'Università di Osaka mi ha inviato una somma a copertura delle mie spese di viaggio e di soggiorno in Giappone. E così, una decina di giorni dopo mi sono trovato intrappolato per 12 ore consecutive nella pancia di un 747...». E, arrivato in Giappone, che cosa è accaduto?«La riunione con la Pmda si è svolta in una sede ministeriale il 10 settembre dalle 14 alle 16. Ci siamo ritrovati attorno a un grande tavolo ovale: da un lato 20 giudici anonimi e dall'altro 25 posti per i componenti il gruppo di ricerca. Conoscevo per fama molti dei 23 scienziati giapponesi ma mi sono stupito quando nei due posti centrali ho trovato il mio nome e quello di mia figlia Anna Maria. È stato così che abbiamo scoperto che siamo stati cooptati nel gruppo di ricerca giapponese. Davanti ad un platea attenta e silenziosa ho proposto immagini di pazienti prima e dopo il trattamento. Il dibattito si è protratto per un paio d'ore. A meeting concluso abbiamo appreso dal professor Miyamoto che i membri della commissione gli avevano confidato di essere stati molto colpiti dai nostri risultati e dalla proiezione delle nostre immagini. Ora, visto che il placet è stato ottenuto, penso che la nostra squadra possa iniziare il lavoro entro la fine dell'anno, con l'impegno di tirare le somme entro la fine del 2009».Perchè in Italia hanno continuato a tenere in scarsa considerazione le sue ricerche? «Non ho idea, ho meglio un’idea ce l’avrei. Le faccio solo l'ultimo esempio: il Bif, il Bollettino d'informazione dell'Agenzia italiana del farmaco recentemente pubblicato su Internet liquida i dati finora raccolti da noi sulla attività antitumorale del Crm 197 come “incompleti o quasi inesistenti” e tali “da creare illusioni per pazienti oncologici talora anche allo stato terminale”. Mentre gli stessi dati sono stati giudicati “altamente suggestivi” in Giappone dalla Pharmaceutical medical devices agency. Ma non mi faccia aggiungere altro, la prego».

lunedì 15 ottobre 2007

Visto da dietro



Non è lo scarso physique du ruole, che impedisce alla passione di non fare una attività, ne tantomeno di sentirsi "segati" dal pensare di farla. Si , come meglio ci viene, traendo il massimo godimento e divertimento con il minimo sforzo e il minimo danno. Non so come mi è venuta la voglia di andare in moto, ma non sono mai stato un fogatissimo dei passi, delle curve di collina, delle gare di accelerazione. Ho sempre visto la conduzione del mezzo come sinergia tra l'uomo e la macchina, cercando di stabilire un legame, come lo si ha con un braccio o una gamba, con la mano o con il piede. Ho sempre considerato la moto non come oggetto, ma come un amico o amica, parlandoci come si fa al bar o a cena, facendole dei regali, rendendola più simile ad un essere umano, che a una macchina. Si narra nelle leggende metropolitane di amplessi avuti con tubi di scarico, di agghindamenti fetish con i tubi dei freni, ma non sono a quei livelli, mi limito solo ad una carezza, come insegnano anche i grandi del motociclismo. E' appena finita la stagione 2007 Power Up (http://www.powerupzone.com/) sul bellissimo circuito di Pannonia Ring (Ungheria) e come sempre dopo una tre giorni a tutto gas, ritorno a casa stanco ma felice. Sarà stato il freddo, saranno stati una serie di incovenienti ridicoli, sarà che sono invecchiato (mai!!!), sarà che penso ai miei figli, ma i tempi sul giro non sono più gli stessi. Certo nell'ambito amatoriale resto sempre un punto di riferimento (chissà poi perchè), ma comunque attestati di stima a non mollare, ma solo per esserci fanno sempre piacere. E allora mi domando, ma visto da dietro, farò bene a continuare a coltivare questa passione che a tanti diventa febbre?