Come volevasi dimostrare la valanga mediatica si è abbattuta sul moto mondiale al seguito dell'eroico ritorno di Rossi. Claudio Costa fu sibillino i giorni dopo l'incidente indicando in “forse” tre settimane per il rientro del pilota di Tavullia. E così è stato perché mai come oggi la Moto Gp ha bisogno di lui per uscire da un impasse che conta solo 17 piloti alla partenza dei quali solo 6 (per essere generoso) in grado di dare un minimo di spettacolo. La cosa più insopportabile di un gesto atletico di alta caratura sono i giornalisti e i cronisti, Meda in primis, che al cospetto del campione sembrano ipnotizzati e si prostrano come se avesse il potere di un santone. Ecco questo disturba un po' tutti noi appassionati di moto, abituati a recuperi record, Locatelli tanto per citarne uno recente, o tanti altri che sono rientrati senza tanto clamore. Ma lui è Valentino, talento indiscusso di questi ultimi 15 anni di corse, che non ha bisogno di essere santificato e coccolato come se fosse il fidanzato di tutti, sconfinando quasi verso un amore omosessuale. A me Rossi è piaciuto perché è andato forte, perché è tornato a fare quello per cui è nato, perché Stoner lo ha battuto sul campo, perché non si è nascosto dietro l'infortunio. E così dovrebbero fare i giornalisti, i commentatori, dovrebbero riportare la cronaca di una giornata di corse perché anche altri ragazzi hanno corso e hanno vinto. Gli eroi sono altri, loro sono solo guerrieri che combattono facendo uno sport per il quale sono disposti a sacrificare la vita figuriamoci una rottura di un osso. Bayliss si fece tagliare la falange del dito mignolo per poter rientrare a correre. Questo è il mondo dei piloti non solo di Valentino e i giornalisti lo sanno bene, ma si sa, i profani che seguono le corse sono in maggioranza rispetto a chi come me non vede solo un pilota in pista, non vede solo una classe, la MotoGp, ma le vede tutte tifando anche per altri piloti, non necessariamente italiani. Oggi il popolo ha bisogno di un suo idolo perché gli idoli fanno marketing e Valentino questo lo sa bene e si è cucito il suo posto nella storia. Ci fosse la possibilità di escludere il commento lo farei volentieri perché l'unica cosa udibile è il ruggito delle moto e ogni tanto qualche gaffe di Reggiani che almeno ci fa un po' ridere, ma subito anche lui ritorna nella più bieca normalità. Ora che la MotoGp ha ritrovato il suo re siamo tutti più contenti, e non è detto che faccia anche un apparizione in Superbike, così come nei rally e nelle esibizioni, perché oramai lo sport italiano porta solo il numero 46 e il 3 di Biaggi... Ma si sa, le gesta del romano valgono commercialmente meno per essere anche almeno una volta menzionate da giornalai ruffiani e compiacenti...
Contenitore di pensieri ad uso e consumo di voi naviganti della rete. Siatene i benvenuti, novelli Caronte del duemila...
domenica 18 luglio 2010
domenica 27 giugno 2010
Meno male che Max c'è!
Come volevasi dimostrare il tricolore sventola grazie ai nostri centauri italiani, in particolar modo con Iannone sabato e il veterano Biaggi domenica. Ancora una volta, senza nulla togliere al bravo e giovane pilota abruzzese, Max Biaggi ha messo il sigillo a due gare condotte da corsaro, quello stesso pilota che negli anni 90 ha vinto 4 titoli mondiali, e che oggi, a 39 anni, si permette di mettere dietro una compagine ben più giovane di lui, Checa e Corser a parte. Non mi voglio soffermare sulla supremazia dimostrata dal pilota romano, ma vorrei porre l'accento sulle tante voci che si sentono in giro in questi giorni, se Rossi va alla Ducati, un pilota italiano su una moto italiana, perchè questo ce l'abbiamo già. Biaggi è romano, l'Aprilia è veneta, il main sponsor è Alitalia quindi che volere di più? Esaltiamo quello che abbiamo già, evitando voli pindarici su quello che potrà essere. Max Biaggi non costa quanto Rossi, ne corre un campionato minore, anzi... La Superbike è altamente più massacrante di una scarna MotoGp, dove non si arriva ai 16 partenti, eppure tutti si aspetta un vagito di un pilota che ha fatto tanto per il motociclismo e che da il motociclismo ha preso tanto. Adesso bisogna elogiare chi da due anni vince con prodotti nostrali, con gente nostrale, ed è in lizza per portare a casa un bellissimo campionato del mondo e comunque vada, una grande prestazione degna di esaltarsi, tutti in piedi sul divano parafrasando un commentatore televisivo. Anche le recenti vicissitudini di Alitalia dovrebbero farci sentire un po' più orgogliosi nel vedere quel marchio svettare di nuovo in alto. Questo Max lo sa bene e puntualmente ringrazia sempre il presidente Colaninno. La Ducati signori miei è al 51% americana quindi non proprio un brand puramente italiano, come non lo sarà lo sponsor Marlboro che dovrà sborsare diversi milioni d'euro per portare sulla rossa il Dott.Rossi. Oggi Biaggi, Aprilia e Alitalia rappresentano veramente un tricolore non solo nei colori ma anche nell'orgoglio di stare sempre sul podio e, ultimamente sul gradino più alto.
Giù il cappello quindi davanti a loro, mano sul cuore e grazie ragazzi per tutto questo, grazie per l'anima che ci date, per l'entusiasmo e per la grinta. Gli altri se arriveranno, lo faranno dopo di voi!
sabato 26 giugno 2010
L'Italia s'è desta

lunedì 7 giugno 2010
Il re è morto, viva il re!

giovedì 3 giugno 2010
Quando la fortuna è Checa

lunedì 24 maggio 2010
Prima fila

lunedì 17 maggio 2010
Come marziani sotto il sole d'Agosto... in città...

lunedì 12 aprile 2010
Inizio col botto

lunedì 29 marzo 2010
L'età è solo un numero: Bravo Max!!!!

lunedì 15 marzo 2010
Casa mia
venerdì 5 marzo 2010
La storia del dottore e del cardellino

lunedì 1 marzo 2010
Yamaha R1 2010 Vale Replica

sabato 16 gennaio 2010
Usa, 007 e Seychelles: il lato oscuro di Di Pietro
La biografia di Di Pietro costellata di incognite: i legami coi servizi segreti italiani e americani, il giallo della laurea, fino al frettoloso addio alla toga. L'ex pm mette le mani avanti ma s'incarta.
Questa convinzione - ribadita implicitamente pochi giorni fa da Rino Formica, ex ministro socialista - passava necessariamente per una rivisitazione del personaggio Di Pietro. Non c’erano solo le Mercedes, i prestiti, le piccole magagne per cui Di Pietro verrà processato e assolto. C’erano dubbi ben più corposi, e che comportavano una rilettura integrale della biografia del magistrato milanese: una carriera solo in apparenza naif, e in realtà compiuta sotto l’egida degli apparati occulti dello Stato, di qua e di là dall’Atlantico. È una ipotesi che, oggi come allora, Di Pietro considera una calunnia senza capo né coda. E fornisce risposte - a volte precise, a volte meno - sui misteri, veri o presunti, della sua storia personale. Eccone una sintesi.
Il rientro in Italia. Secondo le biografie autorizzate, Di Pietro emigra in Baviera nel 1971, a ventun anni, e rientra in Italia due anni dopo. Colpo di scena. Viene assunto dall’Aeronautica militare, e assegnato alla struttura che si occupa di controllare la sicurezza delle forniture ad alta tecnologia bellica delle nostre industrie. È una mansione da sempre svolta in parallelo con un reparto apposito del Sismi, l’Antiproliferazione. E comunque chi vi lavora deve godere di un lasciapassare di sicurezza che in quegli anni viene rilasciato proprio dagli 007. Come fa Di Pietro a ottenere immediatamente il nulla osta? La versione di Tonino è semplice: ho fatto un concorso come impiegato civile, l’ho vinto e sono entrato all’Aeronautica.
La laurea. Il 19 luglio 1978 Di Pietro si laurea in Giurisprudenza alla Statale di Milano. Nel giro di trentuno mesi ha sostenuto ventidue esami, a un ritmo forsennato. Un esame che terrorizza tutti gli studenti di legge, «Istituzioni di diritto privato», lo sostiene e lo passa dopo appena un mese dall’esame precedente. Si laurea con una tesi in Diritto costituzionale, voto 108/110. «Lavoravo di giorno e studiavo di notte», è sempre stata la versione di Di Pietro: e d’altronde la sua incredibile capacità di lavoro è nota. Ma una serie di stranezze rafforzano i dubbi di chi ipotizza che il suo percorso accademico sia stato accompagnato da segnalazioni e raccomandazioni. Un appunto del centro Sisde di Milano sostiene che Di Pietro in quegli anni era in contatto con un diplomatico Usa in servizio nel nord Italia, e con una associazione vicina alla Cia. In una indagine riservata dei carabinieri dell’Anticrimine milanese si legge che il giorno in cui risulta avere sostenuto un esame, in realtà Di Pietro era fuori città: ma sono illazioni che resteranno prive di riscontro. Come pure i sospetti sul ruolo di Agostino Ruju, avvocato, legato ai nostri servizi segreti, che alla Statale fa l’assistente di Diritto costituzionale quando Di Pietro si laurea proprio in quella materia. A indicare Ruju come uomo dell’intelligence sarà Roberto Arlati, uno dei collaboratori più stretti del generale Dalla Chiesa. Peraltro sia Ruju che Arlati verranno arrestati da Di Pietro nel corso di Mani Pulite.
Al fianco di Dalla Chiesa? In una intervista a Paolo Guzzanti, la madre di Emanuela Setti Carraro racconta che Di Pietro lavorava agli ordini di suo suocero, il generale Dalla Chiesa, nella lotta al terrorismo. Non indica date precise, ma l’episodio dovrebbe essere precedente al 1980, quando Dalla Chiesa viene trasferito al comando della divisione Pastrengo: all’epoca, dunque, Di Pietro è ufficialmente ancora un dipendente civile dell’Aeronautica.
L’ingresso in magistratura. Sul concorso con cui, due anni dopo la laurea, Di Pietro entra in polizia non ci sono ombre. Nei dossier craxiani ce ne sono invece, e corpose, sul modo in cui nel 1981 il commissario diventa magistrato, superando al primo colpo un concorso famoso per la sua asprezza. Ai giudici della commissione d’esame resta impressa una certa rozzezza espositiva del candidato. A presiedere la commissione c’è il giudice Corrado Carnevale che più tardi racconterà di essersi fatto commuovere dal curriculum dell’ex emigrante. Ma ancora più inconsueto è quanto accade tre anni dopo, quando il consiglio giudiziario di Brescia valuta l’«uditorato» (cioè l’apprendistato) di Di Pietro. È un giudizio molto severo, che conclude per l’inadeguatezza di Di Pietro a diventare magistrato. Ma il Csm ribalta tutto e promuove l’uditore Di Pietro. Tra i membri del Csm c’è allora Ombretta Fumagalli Carulli, una deputata Dc in ottimi rapporti con gli Usa, che diventerà uno dei primi fan delle indagini anti-corruzione a Milano. Ma Di Pietro ha dalla sua una dichiarazione al Csm del procuratore capo di Bergamo, Cannizzo, che appena un anno dopo cambia radicalmente il giudizio su di lui, aprendogli la strada al trasferimento alla Procura di Milano.
Il viaggio alle Seychelles. È l’episodio più surreale, quello dove è più difficile collocare le tessere in un mosaico sensato. Ruota intorno a Francesco Pazienza, un faccendiere dai mille contatti, iscritto alla loggia P2, bene introdotto negli ambienti dei nostri servizi segreti. Nel 1984 Pazienza viene accusato di avere creato, insieme ad alcuni boss dell’intelligence, una sorta di servizio segreto parallelo, viene colpito da mandato di cattura e si rifugia alle Seychelles. Craxi, che allora è presidente del Consiglio, gli scatena contro il Sismi. Mentre i servizi cercano inutilmente di afferrarlo, alle Seychelles sbarca Di Pietro, sostituto procuratore a Bergamo, ufficialmente in viaggio di piacere. Di Pietro si mette sulla tracce di Pazienza, all’insaputa dei suoi capi. In una dichiarazione riportata dal giornalista Filippo Facci, l’allora capo del Sismi Fulvio Martini ipotizza che «Di Pietro lavorasse anche per il ministero degli Interni e avesse mantenuto legami con il precedente mestiere».
Il viaggio in America. Nel 1985 Di Pietro arriva a Milano, in Procura. Inizia a scavare sul marcio nella pubblica amministrazione partendo dal caso delle «patenti facili». Tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992, con la testimonianza di Luca Magni e l’arresto di Mario Chiesa, dà il via all’operazione Mani Pulite. Nel giro di poche settimane viene sollevato il coperchio sulla inverosimile commistione tra business e politica che si è impadronito dell’ex «capitale morale». Tutta l’Italia tifa per Di Pietro. Ma a ottobre, nel pieno del tourbillon dell’inchiesta, il pm sparisce improvvisamente da Milano e vola negli Stati Uniti. Non si sa bene cosa faccia. Di certo partecipa all’interrogatorio di un imprenditore italiano, tale Grassetto. Poi svanisce, i cronisti italiani gli danno la caccia tra New York, Los Angeles, la Pennsylvania. Sui giornali si parla di una traccia che metterebbe in collegamento le indagini di Mani Pulite con i fondi americani di Cosa Nostra: non se ne saprà mai più nulla. Di Pietro fa una sola dichiarazione: «Siamo qui per alcuni incontri con giuristi e agenti dell' Fbi che ci devono spiegare come si fanno qui in America certe indagini». Ma si dice che venga ospitato anche da quelli della Kroll, la superagenzia di investigazioni private che da sempre lavora anche per l’intelligence a stelle e strisce.
Dimissioni dalla magistratura. Qui i servizi segreti non c’entrano, ma siamo comunque nella categoria del «giallo». Il 6 dicembre ’94, dopo avere concluso la sua requisitoria nel processo Enimont, Di Pietro si toglie la toga e comunica al procuratore Borrelli la sua decisione di lasciare la magistratura. Nei giorni precedenti appariva provato psicologicamente, c’è chi racconta di averlo visto scoppiare a piangere all’improvviso, senza motivo, in ufficio. La spiegazione di Di Pietro è: sapevo che stavo per venire incriminato, dimettendomi ho evitato che a venire travolta fosse l’intera inchiesta e contemporaneamente ho potuto difendermi con maggiore libertà. I fatti gli daranno ragione, verrà assolto e Mani Pulite andrà avanti (anche se per poco). Eppure sono in diversi a pensare che anche la storia di quell’addio sia, in tutto o in parte, ancora da scrivere.
lunedì 4 gennaio 2010
De Magistris. il fallito di successo
Da pm ha sempre perso: ma i continui stop a quei processi inventati gli hanno permesso di vestire i panni della "vittima dei potenti". E vincere così un posto a Bruxelles nell'Idv
Su cosa si misura il successo di un uomo? Su quello che ha fatto. Successo è una parola eufonica, che trasmette un’emozione positiva, che indica il buon risultato dell’azione di una persona determinata. Che ha successo, dunque. Ma è una parola strana, trattandosi di un participio passato sostantivato. Successo discende da succedere. Avere successo non vuol dire altro che è successo qualcosa. Successo, appunto, è quello che è successo. Avendo letto ieri mattina le dichiarazioni di Luigi De Magistris su Berlusconi, inique e preconcette, con l’irritazione mi è venuto immediatamente da pensare, come ogni volta che sento un moralista: da che pulpito parla questo? Cosa ha fatto De Magistris?
L’unica cosa che gli è riuscita è quella che contesta a Berlusconi: fare politica. Avendo ottenuto consenso non per quello che ha fatto ma per quello che non ha fatto, o che ha fatto male. Berlusconi ha raccolto consenso attraverso l’immagine. E De Magistris ha fatto lo stesso attraverso un procedimento più inquietante e pericoloso. Per spiegarlo devo risalire a un reato che non esiste, ma che mi fu configurato, negli anni in cui polemizzavo con Di Pietro e con i magistrati di Mani pulite, da un loro amico e collega, contiguo e indipendente: Italo Ghitti, celebre gip che, in numerose occasioni (credo non sempre), ratificava le richieste di arresto dei pubblici ministeri di Milano. Al culmine dell’azione del più facinoroso di loro, Di Pietro appunto, che si configurò nell’epico scontro con Craxi indicando le due polarità del buono e del cattivo sul modello di Davide e Golia o (nella mentalità più infantile del Di Pietro) di Ginko e Diabolik, Ghitti mi confidò: «Lei, pur nella sua esuberanza, talvolta dice cose condivisibili, ma rimprovera a Di Pietro e ai suoi comportamenti in astratto non emendabili, sulla base delle inchieste o delle dichiarazioni di collaboranti (magari indotti a parlare con la tattica degli arresti). Per essere più efficace dovrebbe rimproverare a Di Pietro il reato più evidente, anche se non formalmente contemplato dal codice: quello di “corruzione di immagine”.
Chiesi chiarimenti. Mi disse (erano i giorni in cui Di Pietro annunciava il suo abbandono della magistratura, misterioso per molti, ma chiarissimo in questa luce), che gran parte delle azioni spettacolari di Di Pietro erano finalizzate a ottenere, per contrasto con la presunta o acclarata disonestà dei potenti, consenso affermando la propria purezza, la propria differenza. Io mostro che Craxi è un ladro, e prendo il suo posto. Così è andata. E così sempre di più appare affermata la posizione politica di Di Pietro rispetto al Partito democratico, nelle stesse forme del Psi di Craxi rispetto alla Dc e anche (nella logica dei due forni, fortemente limitata oggi dal bipolarismo) al Pci. La diagnosi, e ancor più, la previsione di Ghitti, appaiono oggi impeccabili. Ma se l’accusa di ipotetico reato di «corruzione di immagine», e cioè di inchiesta fatta per mettere in cattiva luce l’antagonista e occuparne lo spazio politico, vale per Di Pietro, massimamente vale per le inchieste e la carriera di magistrato di Luigi De Magistris.
Non solo i gravi rilievi contestati dal Csm (e puntualmente confutati da De Magistris), ma l’analisi di tutte le indagini e di tutta l’attività inquirente (con grandi teorie di complotti, P2, massoneria et ultra) porta alla conclusione che nessuno dei perseguiti (per non dire perseguitati) da De Magistris è stato condannato. Archiviazioni, assoluzioni, non luogo a procedere: un’impressionante quantità di fallimenti dopo un grande rumore e spettacolari coinvolgimenti sostenuti dalla grancassa di una televisione asservita al mito dell’eroe solitario e ostacolato da poteri occulti. In realtà presunzioni, insensatezze, sparate accompagnate da un vittimismo televisivo e dal fuoco amico dei Travaglio e dei Santoro. Gli spari hanno procurato feriti, fortunatamente non morti (come è capitato con le inchieste di qualche altro magistrato), ma sono stati i clienti di De Magistris, Prodi, Mastella, Loiero, Cossiga, Sanza, Luongo, Bubbico, De Filippo sul versante prevalente della politica; mentre il collega Vanesio di De Magistris, Henry John Woodcock, si occupava del mondo dello spettacolo, indagando e arrestando illustri personaggi come Vittorio Emanuele di Savoia, Fabrizio Corona, Lele Mora, Flavia Vento, Francesco Totti, Elisabetta Gregoraci, Cristiano Malgioglio.
Insomma, star della politica e dello spettacolo, trasformando Catanzaro e Potenza in capitali dell’azione giudiziaria. Altro che Palermo e Milano. Potenza della noia. Desiderio di successo. Fallimento assoluto delle indagini. Il compito di un magistrato dovrebbe essere, nel desiderio dei cittadini onesti, l’individuazione dei colpevoli. L’obiettivo di De Magistris sembra essere stato quello di creare dei casi, di inventare dei colpevoli importanti e di fare la vittima. Ottenendo l’applauso dei cittadini che odiano i potenti, e godono nel vedere abbattuti i palazzi.
Sarebbe interessante di fronte alla mancanza di responsabilità diretta del magistrato per le sue indagini sbagliate, sentire l’opinione dei parenti delle vittime, per esempio della moglie del senatore Bubbico, che vorrebbe ottenere risarcimento dopo l’infondato sputtanamento. Ma De Magistris non paga. Quello che non può più fare con le inchieste fa con le parole. È un fallito. Ma un fallito di successo.
sabato 2 gennaio 2010
Moschea a Genova
La moschea sorgerà su un terreno di 5.000 metri quadri nel quartiere Lagaccio, nella zona collinare sopra la stazione ferrovia Principe. Il complesso non è stato venduto ma dato in concessione per un periodo di 60 anni, estendibile fino a 99. Dopo 15 anni, però, sarà possibile acquistarlo, purché non vi siano stati commessi in quel lasso di tempo dei reati. In “cambio” il Comune ha ottenuto dalla comunità musulmana 91 metri quadri in via Coronata, necessari per finire un’opera di viabilità.
Le polemiche politiche non sono mancate. Per il candidato del centro-destra alle regionali 2010, Sandro Biasotti (Pdl), “sulla moschea il Comune di Genova ha fatto come il politburo dell’Unione Sovietica. Ognuno deve poter professare la propria religione in piena libertà, ma la politica deve saper capire quando è meglio rinviare una decisione che viene vissuta in maniera conflittuale”.
Getta acqua sul fuoco Andrea Ranieri (Pd), assessore alla Cultura e all’innovazione, che a Libero spiega: “Abbiamo voluto mettere nero su bianco le condizioni per la stipula della convenzione che sarà firmata tra la comunità musulmana genovese e il Comune”. Della moschea, con probabile minareto, si occuperà una fondazione che ancora deve costituirsi: sarà composta da musulmani (cittadini) genovesi, dovrà mantenere economicamente il luogo di culto e avere prima sottoscritto la Carta europea dei musulmani. “Tra le condizioni poste dalla Giunta – dice Ranieri – c’è che la predicazione avvenga in italiano e che la moschea sia aperta al pubblico”. L’obiettivo del Comune è creare un centro religioso-culturale simile alla Grande moschea di Parigi.
Ora il prossimo passo, dopo la creazione della fondazione musulmana genovese, sarà la stipula della convenzione, che poi passerà al vaglio del Consiglio comunale. Ma prima il centro-destra intende indire il referendum e far decidere ai cittadini.