mercoledì 17 settembre 2008

Per favore consumate... di più

I recenti fatti del crack americano, mi hanno fatto venire in mente "strani" discorsi. Bruciare i soldi in borsa è un immagine brutta, perchè con pochi soldi la gente ci vive, ma non essendo io un economista, posso solo avvalermi della mia conoscenza dell'1+1=2. Quante volte ci siamo detti nelle nostre modeste vite economiche "basterebbero 500, 1000 euro in più e sarei un signore...". Ma la grande economia ci insegna che l'uomo più ricco del mondo ha devoluto in beneficenza 40 miliardi di dollari! e ne ha altrettanti... Personalmente sono un gran consumatore, e ignorantemente, ho sempre pensato che se qualcuno consuma, c'è qualcuno che fabbrica, e chi fabbrica lavora, e chi lavora mangia... In un ruscello o in un fiume se l'acqua non scorre, stagna. Così è l'economia. Che ci piaccia o no.
di Arthur C. Brooks
Come insegnava Gandhi, dobbiamo «vivere semplicemente, perché altri possano semplicemente vivere». Invocata da frustrati progressisti occidentali, la frase è diventata - attraverso i decenni - una sorta di morale da slogan adesivo. Recentemente, ha visto un’ondata di popolarità nel mondo accademico da me frequentato, fra coloro che nutrono una visione particolarmente utopistica di un’era futura. Malgrado l’irritante ipocrisia nascosta nella panacea del «vivere semplicemente», sembra che questo pensiero sia utile e degno di essere ricordato. Se noi tutti consumassimo di meno e traessimo più diletto dalle cose non materiali, lasceremmo più beni agli altri, specialmente a coloro che, nel mondo, possiedono molto poco. Giusto? Del tutto sbagliato. Anzi - in realtà - uno dei malintesi più pericolosi del nostro tempo, basato sulla visione distorta del fatto che viviamo in un gioco mondiale a somma zero, nel quale, se io possiedo di più, significa che qualcuno, da qualche parte, deve possedere di meno. Certo, la nostra vita non è semplice. Consumiamo un complicato assortimento di prodotti presi da ogni parte del globo, dal computer di fabbricazione cinese sul quale sto scrivendo questo pezzo, alla maglietta del Guatemala che molti indossano. Questo fatto, che è causa di grande dispiacere per i sostenitori della semplicità, rappresenta in realtà, per molta gente in tutto il mondo, una via di salvezza dalla brutale povertà.Prendete la Cina, che solo nel 1990 aveva un PIL pro capite inferiore a 400 $ e dove 38 bambini su 1000 morivano prima di raggiungere un anno di età. Da allora al 2006, il reddito medio è più che triplicato, e la mortalità infantile è scesa al 23 per mille. Secondo la Banca Mondiale, la Cina da sola ha inciso per oltre il 75% sulla riduzione di povertà in tutti i Paesi in via di sviluppo. Lo ha fatto in larga misura attraverso il complesso mondo dei consumi e del commercio internazionale.Dal 1990 al 2006, il valore delle esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti è aumentato di oltre il 1000% in termini reali, ciò che rappresenta letteralmente milioni di posti di lavoro legati all’esportazione. Tutti i prodotti cinesi che compriamo possono complicarci la vita, ma danno verosimilmente a qualcuno in Cina i mezzi per mantenere la propria famiglia. Oppure prendiamo l’America Latina, che è il partner commerciale locale dell'America con la massima velocità di crescita. Dalla stipulazione del N.A.F.T.A. (North American Free Trade Agreement), detestato dai sostenitori della «vita semplice», e con l’espansione del commercio con l’America del Sud negli anni Novanta, l’America Latina è riuscita quasi a raggiungere l’obiettivo fissato dalle Nazioni Unite per lo Sviluppo del Millennio nell'istruzione primaria per tutti, mentre le percentuali di mortalità infantile sono scese di circa la metà.La storia è la stessa per molte altre parti del mondo, compresa l’Asia Orientale e l’ex blocco sovietico. Per trovare una parte del mondo che non sia stata toccata dal nostro famelico consumismo, dobbiamo guardare all’Africa sub-sahariana, dove il commercio è rimasto prevalentemente invariato nella percentuale del Pil dal 1980. Negli ultimi 40 anni, mentre il resto del mondo si è sviluppato in tandem con i nostri sistemi consumistici lontani dalla «semplicità», l’Africa si è sfibrata. Infatti, nel 1970 l’Africa rappresentava il 15% dei Paesi poveri nel mondo; oggi questo continente ne rappresenta il 68%. Se davvero vivessimo tutti nella semplicità, aiuteremmo i Paesi del mondo a regredire ai livelli economici del Giappone nel 1950, della Cina nel 1990, o dell’Africa sub-sahariana oggi. Se noi, caritatevolmente, rifiutassimo di acquistare nuovi abiti e nuovi televisori, andremmo a creare davvero, involontariamente, conseguenze letali alla gente più vulnerabile. Naturalmente, gli angoli più poveri del mondo hanno bisogno di ben altro che del commercio e del lavoro, per raggiungere uno sviluppo completo. Hanno bisogno di libertà e di istruzione, oltre a tutto il resto. Ma una pancia piena e un bambino florido sono una buona partenza per una vita migliore, e questo implica la domanda di ciò che i poveri possono fornire, domanda che può venire solo da quelli fra noi che hanno avuto la fortuna della prosperità. Vi sono certamente costi per noi, legati alla nostra complicata vita consumistica: costi per l’ambiente naturale, per le risorse non rinnovabili, e forse per le nostre anime. Ma nessuno di questi costi può giustificare una sentenza di morte per la gente che lavora in quelle nazioni, che vendono a noi merci e servizi. E ancor meno, se pretendessimo che i poveri del mondo debbano trarre beneficio da un nostro ritorno alla semplicità. Ciò che conta, piuttosto, sono i nostri sforzi continui per produrre, commercializzare e prosperare, con sistemi che siano in sintonia con i nostri valori di fondo. «Vivere semplicemente» non permetterà ad altri «semplicemente di vivere». Farebbe ritornare l’orologio ad un tempo in cui, non ascoltati e non visti, i più poveri del mondo «semplicemente» morirebbero.
Arthur C. Brooks (Traduzione di Rosanna Cataldo Versione in inglese su forbes.com)

mercoledì 10 settembre 2008

Manuel Poggiali, Peter Pan e l'isola che non c'è (o forse si)


Ecco un altro dei titoli che in realtà non sembra centrare niente. O forse si. In effetti sono stato stimolato un pò dalla storia di Manuel Poggiali e dai commenti di "Grazie D chiunque tu sia" più sotto.
Manuel Poggiali era un pilota professionista e lascia la scena delle corse a soli 25 anni. Voi direte che centra? Pensare ad un ragazzo di 25 anni, pilota professionista, due volte campione del mondo, che abbandona una professione tra il ludico e l'inconscenza, lascia un pò perplessi. Ma di tutto ciò, quello che più mi fa riflettere è la motivazione di questa decisione. Manuel ha deciso che quella scintilla che permette ai piloti di fare quello che fanno, si è spenta, e che adesso è giunta l'ora di dedicarsi al figlio che arriva, ad essere più responsabile anche verso se stesso. Personalmente l'ho considerato un grande gesto da parte di un ragazzo di 25 anni. Un ragazzo al quale non manca niente, perchè comunque lo sport gli ha dato tanto, ha girato il mondo, ha sicuramente vissuto più di tante persone più "vecchie", ha visto cose che noi normali... Eppure si è accorto di essere grande... o forse di crescere...
Io che ho quasi 20 anni più di lui devo ancora farmela questa domanda. Perchè non cresco? E' necessariamente obbligatorio crescere per essere uomini? Negli ultimi 20 anni credo di aver fatto abbastanza follie e spericolatezze, ho sempre cercato di capire cosa fosse il rischio, ma non rischiando, ma cercando di starci vicino e rendergli rispetto. La nascita del primo figlio mi ha un pò dato alle gambe e improvvisamente mi sono ritrovato adulto. Un essere umano nato da una mia cellula (all'inizio erano miliardi, poi ne arriva solo uno...:-) che ha nel sangue parte di me... Poi la seconda, una bambina... Sarà che è donna, sarà che sono passati tre anni, ma se il primo mi aveva lasciato le stampelle, lei mi ha messo definitivamente in ginocchio. Ed il ragazzo che è in me si è adormentato, assopito, e sgomitando, si è forse affacciato l'uomo. Ma non posso esserlo, sono ancora un ragazzo!! Mi piacciono i parchi di divertimento, le moto da corsa, amo tutto ciò che mi diverte, amo la vita! Non posso essere uomo! Loro sono cattivi, prendono tutto sul serio, fanno i conti a fine mese, hanno già i capelli bianchi... Ma se un ragazzo di 25 anni diventa grande, io a (quasi) 43 cosa sono? Cosa devo fare? Devo smettere? Ma se smetto non sono più io, e dopo chi sarò? Lunedi sono rimontato in moto e come sempre il Mugello era fantastico, come anche la velocità, il brivido... Sul cruscotto riflesso c'era il mio casco con la mia testa dentro, ma anche quella dei miei due figli... Credo che se ognuno di noi affronta la vita in maniera seria e responsabile, sia in grado di fare tutto, anche le cose che possono sembrare strane e pericolose, perchè il destino ha già scritto per ognuno di noi la nostra storia. Ed allora posso continuare ad essere un eterno ragazzo?