lunedì 29 ottobre 2007

Mallory, Hillary e l’Everest: un mistero quasi risolto da Conrad Anker


Hillary e Tenzing furono davvero i primi alpinisti a violare la vetta del "Tetto del Mondo" nel 1953? Oppure, davanti a loro, 29 anni prima, vi erano giunti Mallory e Irvine? A questi e altri interrogativi ha cercato di dare risposta l’alpinista americano Conrad Anker durante la serata del 10 febbraio 2000, organizzata da The North Face, Ronco Alpinismo e la Sezione Uget Torino del CAI presso il Centro Congressi della Camera di Commercio di Torino.
Un foltissimo pubblico ha seguito con attenzione e interesse la proiezione di diapositive presentata da Anker, grazie alla quale gli spettatori hanno potuto seguire passo a passo le tappe della "Mallory & Irvine Research Expedition", diretta da Eric Simonson, che nel maggio del ’99 ha ritrovato i resti di Mallory, l’alpinista inglese scomparso l'8 giugno 1924 insieme al compagno Irvine durante il tentativo di salita all’Everest. George Leigh Mallory, 37 anni all’epoca dei fatti, padre di tre figli, si era diplomato a Oxford ed era maestro di scuola. Amico di Virginia Woolf, la celebre scrittrice, membro di uno dei più importanti circoli letterari londinesi, era un uomo colto e raffinato. Alpinista e scalatore di prim’ordine, costituì, già ai suoi tempi, una figura molto moderna. Aveva già preso parte alle precedenti spedizioni del 1921 (durante la quale svolse numerose ricognizioni volte ad individuare una via praticabile) e del 1922 (interrotta per il sopraggiungere della stagione dei monsoni e per una valanga che causò la morte di sette Sherpa).
Andrew "Sandy" Irvine, 22 anni quando scomparve, molto forte e molto tecnico, ideò una modifica al sistema di erogazione dell’ossigeno degli apparati in uso all'epoca, che permise di ridurre di 2 kg il peso dell’attrezzatura. Per questa ragione Mallory lo volle con sé durante la sfortunata spedizione del 1924, anche se non aveva ancora maturato molta esperienza. Conrad Anker, amico di uno dei nipoti di Mallory, ha fatto parte della missione di ricerca – quasi una spedizione archeologica dell’alpinismo - che aveva lo scopo di risolvere il più affascinante giallo alpinistico di tutti i tempi: i due inglesi perirono prima o dopo aver raggiunto la vetta?
Anker è colui che ha materialmente rinvenuto i resti di George Mallory e che ha ricostruito gli ultimi movimenti della cordata sviluppando una plausibile teoria sulla sequenza della tragedia. La "Mallory & Irvine Research Expedition" ha ripercorso fedelmente le tracce della spedizione inglese del 1924 (che, tra l’altro, individuò già nel 1922 la via tutt’oggi più frequentata del versante settentrionale, quella del Colle Nord) ponendo i campi negli stessi punti ove erano stati installati 75 anni prima. L’8 giugno 1924, Mallory e Irvine partirono dall’ultimo campo per entrare nella leggenda. Furono avvistati per l’ultima volta da un altro membro della spedizione (Odell) intorno alle 13.10 e non sembravano avere particolari difficoltà. Dopo di che, scomparvero. Purtroppo, negli anni la testimonianza di Odell si è rivelata imprecisa e (in buona fede) contraddittoria: infatti, non è dato di stabilire con precisione presso quale passaggio - chiave furono avvistati, il Primo o il Secondo gradino.
La questione è fondamentale, indipendentemente dalla difficoltà tecnica del Secondo gradino (per inciso, dopo aver fatto una prova con attrezzatura dell’epoca, Anker ritiene estremamente improbabile che sia stato superato dai due inglesi, dato l’equipaggiamento ed il peso e l’ingombro delle apparecchiature per l’ossigeno). Siccome l’orologio rinvenuto sul corpo di Mallory, presumibilmente fermatosi a seguito della caduta, segnava le 14.25, se Odell avesse avvistato (erano le 13.10) i due alpinisti presso il Primo gradino, essi non avrebbero avuto il tempo materiale di compiere la salita prima dell’incidente; se, invece, l’avvistamento fosse avvenuto presso il Secondo gradino, forse il tempo ci sarebbe stato…
Anker sostiene, mostrando al pubblico una sua ricostruzione fotografica, che Odell, per effetto della prospettiva dal suo punto di osservazione, vide sì i due alpinisti in cresta, ma presso il Primo gradino. Lo stato del corpo di Mallory, la sua posizione e la sua postura indicano che la caduta è avvenuta da un punto compreso fra il Primo ed il Secondo gradino, prima della cosiddetta "fascia gialla", e neppure da tanto in alto: salvo una frattura al piede destro, Mallory non presentava lesioni significative, per cui è lecito ritenere che la morte non sia sopraggiunta per evento traumatico. Secondo Anker, il punto di ritrovamento - anche considerando i naturali movimenti degli strati nevosi - indica che la caduta è avvenuta durante la salita e, quindi, prima d’aver raggiunto la cima. Mallory era ancora legato e quanto resta della corda, circa 10 m, presenta uno strappo: segno evidente che i due alpinisti sono caduti insieme e che non si erano separati, come ipotizzato nel corso degli anni.
Mallory, per espresso volere della famiglia, è stato tumulato sul posto, sulla montagna che voleva scalare semplicemente "perché è là", come una volta rispose ad un giornalista durante un giro di conferenze negli Stati Uniti. Durante la cerimonia è stato letto il Salmo 103, che Anker ha riproposto al pubblico torinese in memoria di tutti i caduti della montagna.
In definitiva, i risultati ottenuti dalla spedizione aggiungono molti particolari al mistero, attenuano alcune ombre, ma non portano la luce definitiva che solo il ritrovamento della macchina fotografica avrebbe potuto fornire. Per i cultori delle ipotesi la materia è particolarmente fertile: l’orologio segnava davvero le 14.25 o piuttosto le 17.10? Gli occhiali da ghiacciaio ritrovati in tasca della giacca erano una dotazione di scorta o Mallory li aveva tolti? Per la nebbia o per il buio? Era davvero il cadavere di Irvine quello rinvenuto nel 1975 da un alpinista cinese, poi a sua volta scomparso? E se la macchina fotografica l’avesse avuta proprio il giovane "Sandy"? Non avendo le risposte, noi alpinisti del XXI secolo dobbiamo comunque, come fece Anker al momento del ritrovamento sedendosi accanto al corpo, pensare a Mallory ed Irvine "con profondo e reverenziale rispetto per quanto furono capaci di fare, indipendentemente dall’aver raggiunto o meno per primi la vetta dell’Everest". Il resto è leggenda ed è bello che sia così: dopo tanto tempo, essa continua ad affascinare e alimenta il bisogno di sconosciuto che c’è in ogni alpinista.

Everest




Il mio primo post di questo blog era dedicato all'Everest. Recentemente ho detto "che per te conquisterei l'Everest". Incredibile, anche se non sono un alpinista, sono attratto e affascinato da cio che riguarda la montagna più alta del mondo. Essendo curioso per natura sono andato a scartabellare un pò di cronaca al riguardo ed ho trovato la lettura letteralmente affascinante. Pensate che durante l'arrampicata possiamo imbatterci in molti corpi, stimati intorno alle 192 unità. Non hanno un nome, ne un cognome, e la maggior parte di essi, non sono sherpa, ma bensì uomini facoltosi o aiutanti di essi che hanno trovato la morte nel tentativo di aver scalato il tetto del mondo. Ma chi ha iniziato questa corsa verso l'alto? Sicuramente il più rappresentativo e forse il vero eroe non è Sir Hillary, che le cronache lo danno come il primo ad aver raggiunto la vetta, ma George Mallory e Andrew Irvine che perirono nel tentativo nell'Aprile del 1924. Nel 1999 un spedizione dedicata al ritrovamento e a far luce su quanto accadde quella mattina, ritrovò su di un versante della montagna, il corpo di Mallory, sicuramente slittato in quel luogo dopo una lunga caduta. Ebbene, immaginatevi per un attimo il 1924, senza Gore Tex, senza materiali sintetici, senza GPS, senza tutta la tecnologia che oggi abbiamo. Immaginatevi, le sciarpe di lana, gli indumenti di cotone, gli occhiali scuri, gli scarponi di cuoio, le tende di barbour o simili, e due uomini che prima del sorgere del sole si sono incamminati verso la conquista della cima. L'altro della spedizione Odell che li lascio a circa 300 mt dalla vetta, li vide stagliati verso il cielo sereno, con il passo deciso, e niente li avrebe fermati. Quello che è accaduto dopo è soltanto leggenda, e forse ci piace credere che sia così, e lasciare a Sir Hillary il nome del primo ad aver visto il mondo dall'alto, e a noi inguaribili romantici, credere che 30 anni prima, qualcuno, con meno clamore, con meno tecnologia, possa aver raggiunto la vetta pagando il pegno di aver lasciato le sue spoglie mortali a testimonianza della sua impresa. Sir George, Sir Andrew, grazie del vostro coraggio, grazie delle vostre gesta che ci sono arrivate fino a noi, in un mondo totalmente diverso da quello che avete lasciato, ma non migliore della lana e del cotone che con semplicità vi hanno condotto verso la storia.

lunedì 22 ottobre 2007

Un amica



Ho sempre considerato l'amicizia una cosa molto delicata e mi sono sempre limitato a dire amici pochi conoscenti tanti. Si perchè oggi noi tendiamo a essere amici nella nostra società ma qual'è il significato vero dell'amicizia? Chi è l'amico/a? Cosa fa una persona per essere considerata tale? Possiamo considerare il rapporto uomo donna anche come amicizia?
Stamani ho ricevuto una email da una mia amica o conoscente che dir si voglia, che non vedo da un pò di tempo ma ogni tanto ci scriviamo. Come in ogni rapporto epistolare, anche a seguito di una mia missiva, lei scrive impressioni, crea un profilo su quello che siamo stati fino ad adesso e poi mi lascia con una domanda: "si può dire ti voglio bene"?
Premesso che fra me e lei non ci sono mai state situazioni intime se non sane chiaccherate davanti ad un buon bicchiere di vino, è così compromettente dire ad un amico una frase senza cadere nella trappola del pensar male o del c'è stato qualcosa? Mi sono sentito lusingato da questo, perchè il bene, quando detto così, è un bene vero, che nasce da una stima verso una persona, e non chiede niente in cambio. Il bene, come l'amore, è come un diamante, "...è per sempre....". Ed anche se poi i rapporti finiscono, si modificano, si rompono in maniera brusca, dove va a finire tutto l'amore, la passione, tutto il bene? Io ho avuto diverse storie che mi hanno segnato, tra cui un matrimonio all'epoca finito non tanto bene. Ma oggi, che sono passati degli anni provo ancora amore per quella persona, che ho portato all'altare, davanti a Dio, facendo delle promesse che poi non abbiamo mantenuto. E' un amore diverso, ma è sempre amore o bene che dir si voglia. Ricordiamoci per un momento le prime uscite con una persona che poi abbiamo amato. Cenetta a lume di candela, fiori, mano nella mano, poi nel degeneramento della serata, ti amo, ti voglio etc. E cosi avanti per un bel pò di tempo. Poi i primi screzi, le prime incomprensioni, e l'amore si affievolisce, fino a diventare routine, anzi, alla prima occasione si cerca di far valere il sacrosanto diritto di avere ragione. Poi se va male ti trovi in un tribunale dove conduci battaglie per una manciata di euri, e non ti ricordi più quelle promesse iniziali che tanto sapevano di buono, ma che in realtà erano atteggiamenti atti a circuire la fonte del proprio piacere. Si lo so, sembro amareggiato, vittima di una separazione triste, ed invece no! Sono un uomo felice che ha amato e ama tutt'ora, anche le persone che oggi hanno preso strade diverse, alle quali detti parte del mio cuore e non l'ho mai rivoluto indietro. E allora ben vengano le persone che non si vergognano di donare del bene, perchè è come metterlo in cassaforte... Quindi mia dolce amica, anch'io ti voglio bene, e mi dispiace se ci vediamo una volta ogni tanto, ma si sà il bene non ha tempo ne confini e regna nei cuori delle persone sagge....

sabato 20 ottobre 2007

Prove di secessione, Bolzano cancella 8mila nomi in italiano

di Cristiano Gatti

L’Alto Adige dirà addio al bilinguismo: valli, monti, contrade e fiumi avranno solo il nome tedesco. Il presidente della Provincia Durnwalder: "Nessuno parla più l’idioma nazionale"
Servirà un po’ di tempo. Servirà anche un buon logopedista per sciogliere i nodi della lingua e rendere agile la dizione. Ma alla fine tutti quanti dovremo chiamare la Vetta d'Italia col suo vero nome: Glockenkaarkofl. Così sarà sulle cartine geografiche, sui cartelli stradali, sui libri di scuola, sui documenti ufficiali. Forza, provare. Cosa sarà mai: Glockenkaarkofl. Dovremo farci l'abitudine e l'orecchio: presto, una legge dell'Alto Adige eliminerà per sempre la versione che piace a noi. Assieme alla Vetta d'Italia, saranno abbattuti altri ottomila nomi in lingua tricolore. Ottomila sui novemila esistenti.Sopravviveranno in doppia versione solo i Comuni. Il resto della geografia locale - cime, torrenti, boschi, masi, valli e contrade - avrà solo nomi e cartelli tedeschi. La Val Fiscalina, dove l'altra settimana s'è sbriciolata mezza montagna: Fischleinthal. Il Maso Corto, ben noto agli sciatori per la sua pista leggendaria: Kurzhof. E l'ormai famoso Plan de Corones, che si portava dietro la sua gloriosa storia latina e ladina: niente da fare, sarà una volta per tutte Kronplatz. Devo un'avvertenza: può darsi che nella trascrizione abbia infilato qualche sfondone. Chiedo subito scusa. In questo strano luogo d'Italia, che qui orgogliosamente chiamano Sud Tirol, non sempre hai sottomano un interprete.Siamo alle ultime fasi del progetto: nell'indifferenza babbea e indolente dello Stato sovrano, stanno ricostruendosi una piccola Austria. È il bricolage dell'autodeterminazione, che ormai va avanti da un secolo. Si pensava allora, alla fine della Grande Guerra, che dopo un paio di generazioni tante velleità autonomiste si sarebbero via via stemperate. Invece, un secolo dopo, è pure peggio. I nipoti stanno realizzando il sogno dei nonni sconfitti: ripristinare l'Austria là dove una guerra l'aveva sfrattata.Inutile ripercorrere la storia dei trattati e dei tralicci, una storia che comunque ha portato in questi luoghi tanti privilegi e tanto benessere. A questo punto interessa soltanto l'ultimo capitolo. O «l'ultima questione irrisolta», come la definisce l'indiscusso sovrano del dorato reame, quel leggendario presidente della Provincia, nonché pezzo grosso del Südtiroler Volkspartei, che risponde al nome di Luis Durnwalder. In termini tecnici, si discute della toponomastica. Cioè i nomi geografici. Di tutte le materie affrontate nei vari trattati per l'autonomia, nettamente la più ostica ed esplosiva. Perché la più simbolica. Perché mette in gioco l'identità del popolo, che qui da troppi anni cammina in bilico tra le rivalità etniche. È come mettere d'accordo i nonni sul nome del nipotino: un affare in sé effimero e impalpabile, ma capace di scatenare furibonde guerre familiari.Qui, da quasi cent'anni, cartelli stradali e carte geografiche vengono fatti e rifatti. Prima del Novecento domina il tedesco, poi arriva Mussolini e impone l'italiano, quindi si arriva nell’ultimo Dopoguerra alla mediazione del bilinguismo. Ogni nome ha due versioni. Un principio che sembra di massimo rispetto. Che non mortifica nessuno. Tant'è vero che viene continuamente richiamato in tutte le leggi e in tutti i trattati di questa incredibile e interminabile contesa.Però c'è un però: l'ultimo Statuto per l'autonomia, del ’72, lascia al governo locale il compito di riordinare la toponomastica, fatto salvo il principio del bilinguismo. Guarda caso, fino ad oggi tutti se ne sono guardati dal mettere il piede sulla mina. Ora, l'ardimentoso Durnwalder si accinge a farlo. Il suo partito ha pronto un disegno di legge, che ovviamente in sede di votazioni passerà a mani basse, avendo il gruppo Svp da sempre la maggioranza assoluta in consiglio provinciale. Che cosa preveda il piano, più o meno, ho già detto: dopo un certosino lavoro di riordino, ottomila nomi in lingua italiana spariscono dalla circolazione. E dalla memoria. Ottomila su novemila, meglio ribadire. Come dice il presidente provinciale di An, Alessandro Urzì, «dopo la pulizia etnica, siamo alla pulizia toponomastica».Il geniale Durnwalder ha in mente un criterio perfetto. Dice: per sapere se abbia ancora senso tenere in vita un nome, italiano o tedesco che sia, bisogna solo vedere se la gente lo usa. Dunque, si andrà a chiedere di villaggio in villaggio quali nomi vengano usati realmente. Perché il nome sopravviva, italiano o tedesco che sia, deve essere familiare ad almeno il venti per cento della popolazione di quel luogo.A prima vista, sembra persino equo: in sostanza, sopravvivono i nomi usati e muoiono quelli che nessuno usa. Nobilissimo. Se non fosse che il criterio contiene un meccanismo diabolico: da queste parti, ormai, i tedeschi sono il settanta per cento. Pochissimi, in giro per le vallate, i paesi dove gli italiani arrivano al venti per cento. Chiaro l'effetto pratico: saranno pochissimi i paesi in cui il venti per cento riuscirà a salvare il mome italiano. Se non suona troppo brutale, il progetto di Durnwalder va definito in un modo molto semplice: è una saporitissima polpetta avvelenata.Guarda caso, in zona tira già aria da guerra santa. Da tempo i toni non erano così esasperati. Spiega ancora Urzì, che ha avviato una petizione popolare: «Fuori, la gente fatica magari a capire tanta tensione su una questione formale. Ma nessuno deve mai dimenticare che nei nomi ci sono la storia e la cultura di un'identità: perso il nome, è persa la memoria. E qui di tutto abbiamo bisogno, tranne che di questo. Durnwalder vuole riportare indietro le lancette della storia: di un secolo». Sempre sul fronte Polo, Forza Italia ha presentato un'interrogazione parlamentare, firmata da Michaela Biancofiore. Ma la difesa dei nomi italiani non è esclusivo affare di versante destro: come si dice, è allarme trasversale. I Verdi, da queste parti fortissimi, così si esprimono per bocca di Cristina Kury, che pure è di etnia tedesca: «Presenteremo una nostra proposta. Il principio assoluto, che non si tocca, resta il bilinguismo. Punto. Durnwalder non può aprire una simile questione a un anno dalle elezioni. Se lo fa, è per ricompattare sull'orgoglio il gruppo tedesco. E forse anche per sfruttare il suo grande momento a Roma: tre senatori Svp tengono in vita Prodi, possono chiedere qualunque cosa...».Da parte sua, il presidente Durnwalder sembra sguazzare a proprio agio in questo brodo primordiale del muro contro muro. In diverse occasioni, non esita a manifestare pubblicamente tutta la sua determinazione ad andare fino in fondo. «Quello della toponomastica è un nodo irrisolto, voglio chiudere in tempi brevi. Le preoccupazioni degli italiani? Se viene cancellato un nome che non si usa, non si perde nulla». A un cronista locale che giorni fa gli faceva notare l'inghippo della legge, questa la risposta: «Non capisco il problema. Se in un paese la maggioranza è tedesca e si usa solo la versione tedesca, al gruppo italiano non si toglie niente». Una dedica anche a Ettore Tolomei, lo studioso che nel secolo scorso mise a punto un elenco delle denominazioni storiche di questi luoghi: «Quel pazzo ha cambiato i nomi originari, imponendo nomi di fantasia. Reinswald è diventato San Martino, Obereggen è San Floriano. Ma se chiami un'ambulanza per San Martino o per San Floriano, i soccorritori non arriveranno mai...».È facile prevedere: se Durnwalder non fa marcia indietro, presto l'Italia si fermerà a Trento. Qui, un domani, l'impronta nazionale resterà riconoscibile soltanto nei fondi pubblici che l'indefesso Stato sovrano continua a inviare. Per dovere di cronaca, non va comunque ignorato come Durnwalder sia disposto ad aperture, secondo quanto dichiarato recentemente: «Intendiamoci: se poi un italiano, in privato, vorrà usare il nome italiano, potrà farlo. Non sarà la versione ufficiale, ma potrà farlo...». Gli va riconosciuto: è molto umano.

venerdì 19 ottobre 2007

A me i francesi stanno un pò li, però...

Ieri un bel po’ di lavoratori francesi hanno scioperato contro Sarkozy. Il presidente Sarkozy non si è fermato e non si ferma perché pensa che le sue riforme facciano il bene dei francesi. Anche di quelli che hanno scioperato. Avant? Contro cosa hanno scioperato? Il presidente vuole superare gli attuali regimi speciali pensionistici che riguardano molti del settore pubblico. In particolare vuole portare da 37,5 a 40 gli anni di contributi necessari per andare in pensione. Siccome in pochi cominciano a lavorare prima dei vent’anni, tutto questo vuol dire che in Francia si andrà in pensione dai sessant’anni in poi. Altro che scalone e scalini. Vi immaginate, in Italia, un presidente che propone una cosa e la porta avanti nonostante tutto e tutti? Per noi è come parlare di un altro mondo. Il nostro governo ha la stessa vivacità di un serpente chiuso in un rettilario. L’avete presente? Lo infastidisce il movimento. Più sta fermo, meno fa e più dura. Ricordate quando il centrodestra fece la riforma del lavoro che portava il nome di Biagi? Biagi non c’è più. Lo ammazzarono perché aveva ispirato quella riforma. Nicolas Sarkozy procede in modo spedito perché ha i poteri per farlo. Il centrodestra provò a dare questi poteri al premier con una riforma, ma il referendum lo bocciò perché la sinistra non volle farla. La sinistra non ha bisogno di un premier forte, ha bisogno di una colla forte, una sorta di Attack per parlamentari che li tenga incollati da una parte alla sedia e dall’altra a Prodi. Nicolas Sarkozy procede spedito anche perché ha un progetto chiaro e sa che vuole portare la Francia al di là del fiume su una sponda sicura. Per questo non è intimorito dal guado. Conta che i francesi capiscano, magari non subito, che quello che sta per fare sarà fatto nell’interesse della totalità dei francesi e non di questa o di quella categoria. In Italia il nostro professor Prodi parla spessissimo di bene comune. Fino al disgusto. E poi si occupa solo del bene di questo o di quello, che, alla fine, gli fanno più comodo del bene comune. Ma questo è il centrosinistra e, ormai lo sappiamo, non potrà mai seguire la lezione di Sarkozy. Del resto dopo l’elezione si sono accodati, ma avrebbero preferito che vincesse la Royale. Può servire la lezione Sarkozy al centrodestra? Pensiamo proprio di sì, per due motivi: il primo, sul quale al momento il centrodestra non sta lavorando, è quello della costruzione di un programma chiaro, corto e preciso; il secondo è che bisognerebbe che imparasse a fidarsi un po’ di più del blocco sociale che lo sostiene, che è maggioritario, e si occupasse un po’ meno dei mormorii, borbottii e urla della piazza. Nella piazza non ci stanno tutti gli italiani, ce n’è solo una parte, gli altri stanno a casa e memorizzano tutti gli errori commessi da Prodi.

martedì 16 ottobre 2007

Io, bistrattato a Roma e osannato a Tokio

di Gabriele Villa
E così la terapia anti-cancro del medico più bistrattato d'Italia adesso è un affare giapponese. Facciamo finta che sia solo colpa di un pressante invito e non del totale disinteresse dell’Italia verso uno dei tanti buoni cervelli che possiede.Fatto sta che chi conosce, almeno un poco, il dottor Silvio Buzzi, sa bene che lui, il modesto e restio, neurologo settantasettenne di Ravenna, ha dovuto accettare: è salito su un aereo e, in Giappone, ha spiegato ad un auditorio di medici e ricercatori la sua terapia anticancro. In buona sostanza, una versione pedagogica bis, approfondita e dettagliata, della full immersion che, in maggio, aveva regalato a una delegazione di scienziati nipponici che gli aveva fatto visita a Ravenna. Per ascoltare, per valutare i suoi dati. Per dare, su ordine del governo di Tokio, consapevolmente spazio e credito, a un medico italiano cui da trent'anni, in Italia, sbattono la porta in faccia solo perché ha avuto un'intuizione sorprendente.Dottor Buzzi, ci racconti come si è arrivati a questa svolta...«Diciamo che i colleghi giapponesi non mi hanno, in senso affettuoso, naturalmente, dato tregua dopo il nostro incontro a Ravenna. Perché nei mesi di giugno e luglio il professor Mekada, capo del gruppo di ricerca sul Crm 197, scienziato di statura mondiale, mi ha inviato ben quattro inviti a recarmi in Giappone per partecipare a un meeting fra il gruppo di ricerca, che voleva passare dalla sperimentazione animale a quella clinica, e la commissione che avrebbe dovuto giudicare la bontà del progetto ed, eventualmente, finanziarlo».Motivo di tanta insistenza?«La ragione di un invito tanto insistente era che la squadra giapponese ha al suo attivo solo un lavoro eseguito sul topo trapiantato con tumori ovarici umani. In quel caso il Crm 197 inoculato a questi animali aveva bloccato totalmente la crescita dei tumori. I dati di questo lavoro sono stati pubblicati nel 2004 su Cancer Research. Ma la Pmda, Pharmaceutical medical devices agency, organizzazione governativa giapponese con la quale il gruppo di ricerca si era già incontrato già tre volte, sosteneva che il passaggio dal topo all'uomo era troppo brusco e consigliava di affrontare altre prove su animali superiori. I colleghi hanno allora parlato della mia sperimentazione clinica in Italia sostenendo che avvalersi della mia esperienza avrebbe accorciato i tempi per sperimentare la nuova terapia». Quindi volevano arruolarla, perché spiegasse dati e risultati ottenuti...«Ammetto che ho più volte resistito all'invito preoccupato dalla lunghezza e dall'asperità del viaggio, ma inutilmente. Il 29 agosto la Research foundation for microbial diseases dell'Università di Osaka mi ha inviato una somma a copertura delle mie spese di viaggio e di soggiorno in Giappone. E così, una decina di giorni dopo mi sono trovato intrappolato per 12 ore consecutive nella pancia di un 747...». E, arrivato in Giappone, che cosa è accaduto?«La riunione con la Pmda si è svolta in una sede ministeriale il 10 settembre dalle 14 alle 16. Ci siamo ritrovati attorno a un grande tavolo ovale: da un lato 20 giudici anonimi e dall'altro 25 posti per i componenti il gruppo di ricerca. Conoscevo per fama molti dei 23 scienziati giapponesi ma mi sono stupito quando nei due posti centrali ho trovato il mio nome e quello di mia figlia Anna Maria. È stato così che abbiamo scoperto che siamo stati cooptati nel gruppo di ricerca giapponese. Davanti ad un platea attenta e silenziosa ho proposto immagini di pazienti prima e dopo il trattamento. Il dibattito si è protratto per un paio d'ore. A meeting concluso abbiamo appreso dal professor Miyamoto che i membri della commissione gli avevano confidato di essere stati molto colpiti dai nostri risultati e dalla proiezione delle nostre immagini. Ora, visto che il placet è stato ottenuto, penso che la nostra squadra possa iniziare il lavoro entro la fine dell'anno, con l'impegno di tirare le somme entro la fine del 2009».Perchè in Italia hanno continuato a tenere in scarsa considerazione le sue ricerche? «Non ho idea, ho meglio un’idea ce l’avrei. Le faccio solo l'ultimo esempio: il Bif, il Bollettino d'informazione dell'Agenzia italiana del farmaco recentemente pubblicato su Internet liquida i dati finora raccolti da noi sulla attività antitumorale del Crm 197 come “incompleti o quasi inesistenti” e tali “da creare illusioni per pazienti oncologici talora anche allo stato terminale”. Mentre gli stessi dati sono stati giudicati “altamente suggestivi” in Giappone dalla Pharmaceutical medical devices agency. Ma non mi faccia aggiungere altro, la prego».

lunedì 15 ottobre 2007

Visto da dietro



Non è lo scarso physique du ruole, che impedisce alla passione di non fare una attività, ne tantomeno di sentirsi "segati" dal pensare di farla. Si , come meglio ci viene, traendo il massimo godimento e divertimento con il minimo sforzo e il minimo danno. Non so come mi è venuta la voglia di andare in moto, ma non sono mai stato un fogatissimo dei passi, delle curve di collina, delle gare di accelerazione. Ho sempre visto la conduzione del mezzo come sinergia tra l'uomo e la macchina, cercando di stabilire un legame, come lo si ha con un braccio o una gamba, con la mano o con il piede. Ho sempre considerato la moto non come oggetto, ma come un amico o amica, parlandoci come si fa al bar o a cena, facendole dei regali, rendendola più simile ad un essere umano, che a una macchina. Si narra nelle leggende metropolitane di amplessi avuti con tubi di scarico, di agghindamenti fetish con i tubi dei freni, ma non sono a quei livelli, mi limito solo ad una carezza, come insegnano anche i grandi del motociclismo. E' appena finita la stagione 2007 Power Up (http://www.powerupzone.com/) sul bellissimo circuito di Pannonia Ring (Ungheria) e come sempre dopo una tre giorni a tutto gas, ritorno a casa stanco ma felice. Sarà stato il freddo, saranno stati una serie di incovenienti ridicoli, sarà che sono invecchiato (mai!!!), sarà che penso ai miei figli, ma i tempi sul giro non sono più gli stessi. Certo nell'ambito amatoriale resto sempre un punto di riferimento (chissà poi perchè), ma comunque attestati di stima a non mollare, ma solo per esserci fanno sempre piacere. E allora mi domando, ma visto da dietro, farò bene a continuare a coltivare questa passione che a tanti diventa febbre?

giovedì 11 ottobre 2007

La vita deluxe del compagno Fausto

di Luca Telese

Cravatte griffate, e sgraffignate. E, per di più, alla Terza Autorità dello Stato, sua eccellenza Fausto Bertinotti. Fantastico: non è un gioco di parole, non è uno scherzo, è tutto vero. E i lettori per una volta ci scuseranno – quindi - se su questo giornale solidamente e montanellianamente legalitario, per una volta si tesse l’elogio di un esproprio “proletario”, o - meglio ancora – di un “esproprio presidenziale”. Perché merita sicuramente un premio l’anonimo compagno che venerdì scorso, nella sede di Rifondazione in via Barberini, ha eroicamente trafugato cinque cravatte della collezione “Autunno inverno” - confezione esclusiva con cucitura a mano - inviate in omaggio da uno degli stilisti più à la page della moda milanese, Luca Roda, al presidente della Camera che (un tempo) si commuoveva per gli operai e per gli scioperi, e che (adesso) si deprime per l’assortimento del proprio guardaroba. Una volta esplorati questi dettagli, dunque, è chiaro che il fatto non può essere degradato alla volgare fattispecie del furto, ma deve essere elevato al rango più alto del gesto pedagogico ed educativo. Una sottrazione di cravatte – cinque, tre regimental in seta, su toni di blu e rosso, due in cachemire - celebrata con discrezione ed eroico tempismo, non per nuocere a Bertinotti, ma sicuramente per aiutarlo a ravvedersi. Non per invidia, dunque, ma in fondo per amore.L’anonimo compagno che si è visto arrivare nella sede del partito l’elegante scatola bianca con carta crema e cordoncino beige chicchissimo, infatti, ha provveduto a far sparire prontamente i reperti sartoriali che testimoniavano un ennesimo segnale di cedimento dell’ex “subcomandante” Fausto alle mollezze del Palazzo. A fare lo scoop è stato il Corriere della sera, che ieri però, ha nascosto l’esilarante cronaca di Giovanna Cavalli nientemeno che a pagina 13. Meraviglioso anche l’epilogo riferito dalla brillantissima firma di via Solferino. Bertinotti, dopo aver chiamato lo stilista contrariato (“Sai, mi è successa una cosa spiacevole...”) non si è lamentato per il danno pecuniario (circa 600 euro, quisquilie), ma per la sede in cui si è celebrato. E incurante dell’avvertimento, non ha cercato l’anonimo per festeggiarlo e ravvedersi, ma ha chiamato l’atelier sulla riva del Garda, per chiedere che il prossimo pacco non sia recapitato nell’ormai insicura sede di Rifondazione, ma al più istituzionale e rassicurante ufficio postale di Montecitorio. Un segnale simbolico - a ben vedere - di un cambio di ragione sociale. Certo, l’anonimo compagno pedagogo, ha più di un motivo per giustificare il suo gesto. Da tempo Bertinotti ha avviato una operazione di mutazione tanto straordinaria quanto interessante. Dapprima l’acquisto della villa con piscina a Massa Martana, che noi consideriamo molto confortevole, ma che il vecchio Bertinotti (il ragazzo di Varallo Pombia che si appassionava alla lotta di classe e non firmava i contratti), avrebbe considerato sconveniente. Stavolta Fausto ha firmato il contratto, e celebrato il rogito. Poi c’è stata la dimessa visita al monte Athos, molto discreta e quasi mistica (peccato che celebrata davanti ad una telecamera del Tg1). Quindi abbiamo seguito la polemica di Donna Lella Fanio in Bertinotti - la first lady! – che il 24 agosto ha scritto furibonda a La Stampa per protestare contro una battuta irriguardosa del comico Bertolino, che era arrivata a fare del sarcasmo su un pranzo mondano con Valeria Marini. Quindi si era aggiunta la capziosa polemica sui presunti “aerei blu” del presidente della Camera, tutto per un innocente volo di Stato che ha accompagnato Bertinotti nella sua sede di vacanza in Bretagna (e che sarà mai), e le malizie del mitico Magazine di Maria Luisa Agnese, che si è divertito ad almanaccare uno straordinario scambio di cortesie. Quando Bertinotti si era ritrovato appiedato in Egitto (per via di uno stop di manutenzione del suo aereo), il munifico presidente Mubarak, gli ha dato un passaggio con il suo aereo di Stato, permettendogli di visitare, malgrado il contrattempo, Karnak e Luxor (tecnicamente si tratta pur sempre di “avio-stop”, roba da beat generation). E quindi l’ultima malignità. Perfida, perché accostata a ciò che un uomo ha di più sacro. La sottolineatura greve di chi aveva notato una elegante omissione nel bollettino medico sulla rimozione della prostata presidenziale. Bertinotti si era operato “in una clinica romana”, ci informava l’ufficio stampa di Montecitorio, trascurando – giustamente – il dettaglio morboso che Fausto, grande sostenitore del sistema sanitario nazionale, lo aveva fatto in una clinica privata. La sfortuna voleva che l’eroico Giuliano Amato, follemente spericolato, solo due giorni dopo si fosse affidato (per il medesimo intervento) a una struttura pubblica: il policlinico di Tor Vergata. La vicinanza dei due eventi chirurgici, aveva fatto nascere, in Transatlantico, la distinzione capziosa e certo irriguardosa fra “prostata socialista” (Amato) e “prostata presidenziale” (quella di Berty). Così, al presidente della Camera, molto sommessamente, vorremmo consigliare di non cambiare indirizzo, di tornare l’uomo che scriveva a il Messaggero meticolose lettere di smentita su illazioni vergognose (“Non ho mai comprato nessun maglione cachemire, ne ho uno solo, che mi è stato regalato da un gruppo di compagne”) e tornasse nel “covo” di via Barberini, la sede del suo partito, per un gesto esemplare. Farsi restituire il cachemire espropriato: ma perdonare il compagno pedagogo che ha provato inutilmente a redimerlo.

mercoledì 10 ottobre 2007

Scambio di culle scoperto dopo 10 mesi

di Cristiano Gatti
Il caso nella Repubblica Ceca. Il tormento della coppia: staccarsi dalla bimba allevata fino a quel momento per riavere la vera figlia. La rivelazione dal test del Dna fatto dal padre dopo le battute degli amici: non ti somiglia
Per comprendere la portata di certi fatti della vita bisogna solo riuscire a immedesimarsi. Mettiamoci per un attimo nei panni di Jaroslava, una giovane mamma di 25 anni che vive nel villaggio di Jablonov, Repubblica Ceca. Da dieci mesi culla e allatta la piccola Nikola, fantasticando le cose più grandi per il suo grandioso futuro. Tra mamma e bambina c’è la simbiosi perfetta che si rinnova ogni volta, dagli albori del mondo. Al loro fianco, il papà Libor, 29 anni e tanto orgoglio per le due donne di casa. Improvvisamente, questo idillio di vita domestica, in un luogo defilato del pianeta terra, viene squarciato da un turbine feroce: la bambina non è di questa casa. La piccola Nikola dovrebbe stare fra altre braccia, in un’altra famiglia. Avrebbe dovuto succhiare un altro seno, avrebbe dovuto ascoltare altre ninnenanne. Al suo posto, qui, nella casa di Jaroslava e Libor, dovrebbe starci un’altra bambina, la loro bambina, che invece vive da dieci mesi a trenta chilometri di distanza, in un altro villaggio, in un altro nido, succhiando un altro latte e ascoltando altre ninnenanne...
Un banale scambio di neonate. Si fa presto a dire. Come le valigie all’aeroporto: l’importante è accorgersene, basta scambiarle di nuovo e il disguido è risolto. Ma questa, purtroppo, è tutta un’altra storia. Che cosa succeda in quello strano 9 dicembre 2006 non è ancora chiaro. L’ospedale Trebic, vicino a Brno, sta conducendo un’inchiesta interna. Col senno di poi, adesso è chiaro il significato di una strana coincidenza notata all’epoca dalle due mamme: nel giro di poco tempo, il peso di Nikola scende da 3,3 chili a 2,65, mentre uno sbalzo alla rovescia tocca alla sua vicina di culla Veronika. Le puerpere provano pure a chiedere spiegazioni, ma le infermiere tranquillizzano: nessuna paura, succede qualche volta che sbagliamo a segnare i pesi sulle cartelle... I destini paralleli delle due bambine prendono poi strade diverse. Nella casa di Jaroslava e Libor, la piccola Nikola cresce come una bambina «sempre sorridente», secondo il ricordo del papà. Una sola cosa: i genitori notano che la piccola è biondissima, mentre loro sono entrambi mori. E purtroppo non sono i soli a notarlo: tra gli amici, al bar, c’è chi va giù pesante con le ironie, segnalando la differenza cromatica al perplesso papà. Cosa dire: forse sono proprio le becere ironie a smuovere il caso. Colpito nell’orgoglio, scosso da un tarlo invadente e fastidioso chiamato sospetto, papà Libor decide di chiedere un test del Dna. Lo chiede di nascosto, senza che la moglie lo sappia. Hai visto mai che il risultato porti sorprese. Difatti, la sorpresa arriva: Nikola, l’adorata Nikola, non può essere figlia sua. Davanti a un simile choc, come ogni padre sgretolato, Libor affronta la moglie: se non è figlia mia, chiede, mi vuoi dire cosa diavolo hai combinato? Lei è ugualmente incenerita. Non si capacita. Cerca di convincere il marito a parole, giurandogli fedeltà assoluta e ipotizzando che l’esame del Dna sia evidentemente sbagliato. Poi, realizzando che non si può mandare avanti una famiglia nel dubbio, si offre volontaria per l’unica prova provata: il test del Dna anche per sé. Manco a dirlo: uguale il risultato. Nikola non è figlia di questi genitori. Non dovrebbe stare in questa casa. Esplode lo scandalo. Con un altro giro di Dna il caso viene risolto: a trenta chilometri di distanza, in un’altra casa e tra altre braccia, c’è la vera Nikola, che però i coniugi Cermakova chiamano da dieci mesi Veronika. Uno scambio di neonate all’ospedale. Un errore catastrofico, lo definisce il Daily Mail, dopo che la notizia fa il giro del mondo. La catastrofe vera adesso si annida nel cuore delle madri. Racconta Libor, il papà che per spazzare via le ironie degli amici ha risolto il giallo: «Non appena abbiamo avuto la certezza dell’errore, siamo precipitati nel dramma. Io ho pianto per due ore, mia moglie Jaroslava è inconsolabile. Ci siamo subito incontrati con l’altra coppia di genitori, ma Jaroslava non ha retto: è corsa in bagno e ha pianto tutto il tempo...».La signora Jaroslava e l’altra mamma si portano dietro un dilemma irrisolvibile: mia figlia è quella che per dieci mesi ho cresciuto, quella che amo, quella che è la mia stessa vita, oppure è quella che ho partorito? Per capire almeno in parte quanto devastante sia questo enigma irrisolvibile, basta provare ad immedesimarsi. Un’operazione che ci riesce sempre più difficile, davanti al film monotono e martellante dei drammi universali che ci cadono addosso, tutti i giorni e da tutte le parti, dal mondo reale e dal mondo della finzione, togliendoci la capacità di distinguere, e soprattutto di provare ancora qualcosa. Per loro fortuna, le due famiglie stanno trovando il modo migliore per sopportare il peso: lo condividono. Per un po’ di tempo, per tutto il tempo che servirà, formeranno una famiglia allargata. Madri, padri e bambine cominceranno a scoprirsi, incrociando sentimenti e paure. Poi, per il futuro, i genitori hanno le idee chiare: al momento giusto, ciascuno si porterà in casa la figlia vera. Ma già sanno che una domanda, come una sottile angoscia, sempre li accompagnerà: quale è, davvero, la figlia vera?
Come fareste voi?

Ad Assisi è morto il pacifismo

di Paolo Granzotto

Lungo i ventiquattro chilometri che dividono Perugia da Assisi, domenica scorsa si è celebrato, in lungo corteo, il funerale del pacifismo. Non tirava più, il pacifismo, non era più «di tendenza». Scalzato, negli animi sempre pronti ad infiammarsi della società civile, dai diritti, purché «umani» e «per tutti». E così la Marcia della Pace che almeno nelle intenzioni doveva rappresentare la risposta «forte» del movimento pacifista e dei buoni fraticelli di Assisi alle gaglioffate del regime comunista di Than Shwe non è andata più in là di un pittoresco défilé campestre, con tutto l'armamentario del caso: il pulmino che diffondeva musiche di Bob Marley e John Lennon, le magliette con il Che Guevara, la folkloristica rappresentanza del popolo Ogoni, gli equi&solidali, le Ong, i boy scout, don Ciotti, gli attempati frichettoni, le figlie dei fiori appassiti, le famigliole col pupo a cavalluccio, Pecoraro Scanio, i menestrelli schitarratori, qualche regina dei salotti con le Tod's e un pugno di intellettuali con la mazzetta dei giornali sotto il braccio. Ma il rosso delle braghe, delle magliette, delle casacche, dei cappellucci, dei foulard e delle pashmine che in segno di solidarietà ai monaci birmani avrebbero dovuto colorare di sé la marcia, ebbene quel rosso l'hanno visto solo i titolisti della Repubblica e dell'Unità. Poche anche le bandiere arcobaleno, che pure col loro garrire un tempo oscuravano il sole. Inesistenti gli striscioni con slogan pacifisti (tipo: «Giù le mani da...») e del tutto assenti i campioni del pacifismo senza se e senza ma, gli Strada e i d'Arcais, i Veltroni e le Rula Jebreal.Della orazione funebre si è incaricato lo stesso promotore e organizzatore della Marcia della (ex) Pace, Flavio Lotti: «Questa marcia per i diritti umani - ha detto - rappresenta un evento all'interno di un progetto per la costruzione di una Italia non violenta». Evento, progetto, costruzione: i tre principali elementi della Tavola dell'Aria Fritta. La stessa somministrata dal comunista Franco Giordano affermando che nella Perugia-Assisi si sono poste le basi di «una nuova cultura pacifista». O da Pecoraro Scanio secondo il quale la Marcia «è la risposta ai profeti della regressione». O, ancora, da don Ciotti che nelle vesti di marciatore per la pace scopre che pagare il pizzo non è segno di libertà. La verità, come rileva un osservatore al di sopra di ogni sospetto, l'inviato di Repubblica Giampaolo Cadalanu, è che «sulla marcia resta un senso di ricerca: non di un leader o di un inquadramento, ma di qualcuno che metta in pratica le idee». Idee espresse dalle mille e 400 organizzazioni (tante ne hanno contate gli organizzatori) presenti coi loro rappresentanti e le loro insegne all'«evento all'interno del progetto».Bene così. Non fosse che per l'arredo urbano - saranno finalmente ritirate dai balconi gli ultimi decolorati ciaffi arcobaleno - c'è sicuramente da rallegrarsi per questo fulmineo trapasso della ideologia e del movimento pacifista. Resta da chiedersi cosa determini negli animi progressisti certe improvvise vampe di entusiasmo, di impegno, di partecipazione e di lotta alle quali segue, altrettanto fulmineamente, l'ostentato e quasi provocatorio disimpegno. È volubilità intellettuale, caducità ideologica o solo una questione di mode alle quali uniformarsi in branco? Vengono in mente i girotondi che tennero banco per una stagione primavera-estate e che a giudizio dei commentatori più autorevoli, un Biagi, uno Scalfari, una Spinelli, rappresentavano la vera novità e l'ineluttabile futuro della politica e della Repubblica nel suo insieme. Assistemmo allora al lancio nell'orbita massmediatica dei Pancho Pardi e dei Paul Ginsborg, per ritrovarceli l'indomani, neanche fossero le sorelle Lecciso, nel cono d'ombra dell'indifferenza. Archiviato il pacifismo, ora la moda impone, come «impegno nel civile», i «diritti umani per tutti». Le simpatiche sorelle Lecciso possono star tranquille: avranno presto nuovi amici coi quali ingannare il tempo.

martedì 9 ottobre 2007

Quando alle volte si dice...

di Caterina Soffici

Intellettuale secondo il dizionario Zingarelli: «Chi si dedica prevalentemente ad attività connesse con il sapere ed il pensiero, ha vasti interessi culturali, produce opere di tipo letterario, artistico, scientifico e simili».
Intellettuale secondo Alberto Moravia (dal romanzo inedito I due amici, in uscita da Bompiani in occasione del centenario della nascita di Moravia il 28 novembre). «Persona colta ma povera e perciò incapace di far della cultura un mero ornamento e passatempo, costretto per campare a fare il critico cinematografico in un giornale di terz’ordine, a tradurre libri gialli, a scrivere libri di varietà, in fondo ozioso seppure attivo, eternamente disoccupato seppure occupatissimo». Fisicamente il perfetto tipo di intellettuale è «piuttosto piccolo di statura, arruffato nei capelli, occhialuto, vestito di maglioni sportivi in luogo di camicia, le tasche piene di carte, i pantaloni sfrangiati, le scarpe infangate».
Comunismo secondo il dizionario Zingarelli: «Dottrina politica, economica e sociale fondata da K. Marx e F. Engels verso la metà del XIX sec., che propugna l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e la distribuzione sociale dei prodotti in base ai bisogni di ciascuno».
Comunismo secondo Alberto Moravia. Ovvero del perché il protagonista del romanzo (uno dei due amici) decide di farsi comunista (Ibidem). «Lui era ricco e io povero. Lui di famiglia nota e potente, io di oscura piccola borghesia, lui elegante ben vestito e mondano, io malvestito, oscuro, goffo. Senza confessarmelo forse, io mi feci comunista anche per trovarmi in una posizione accusatoria e superiore, anche per potergli dire: “Non soltanto non sono un intellettuale come tu dici, ma sono anche qualcuno che può dirti in faccia, che ha il diritto di dirti in faccia che sei condannato, che appartieni a una classe condannata, che tutti i tuoi soldi, la tua mondanità, la tua eleganza, le tue arie non ti salveranno il giorno del giudizio e che questo giorno è prossimo e che in questo giorno tu sarai pesato sulla bilancia e sarai trovato mancante e buttato via tra i rifiuti, come una spazzatura”».
Ecco, abbiamo finalmente capito la differenza tra l’ideale e il materiale per l’intellettuale comunista.

lunedì 8 ottobre 2007

Ciao Norifumi

Vado in moto da oltre 20 anni, e come tutti ho iniziato per la strada, sui passi dell'appennino, nei dintorni della mia città, Firenze. La mia prima vera moto è stata un Gilera RV125, all'epoca una rivoluzione nel campo delle piccole cilindrate, e vi posso garantire che i 145 km/h effettivi erano un bel traguardo. Non sapevo niente di sospensioni, di gomme, di freni... andavo, senza aver la minima idea di cosa stessi facendo. Passarono gli anni, la cilindrata aumentò fino a 500 con il Kawasaki Z500 e nel 1987 feci la mia prima apparizione al Mugello. Fu amore a prima vista. Nel 1990 la prima moto "da corsa", il Kawasaki GPX750R, che usavo anche per diporto, ma oramai la scintilla era scoccata, più andavo forte in pista, più andavo piano in strada.

Quello che è successo dopo, è storia recente, come le mie accuse al sistema italiano di non favorire l'uso delle piste a prezzi modici, impedendo a chi non ha grandi mezzi economici, di sfogarsi nei luoghi adeguati, invece che per la strada. Norifumi Abe è morto lì, lontano dalle competizioni, lontano dalle folli velocità su pista, lontano dalle sicurezze che ci sono, lontano dal Dott.Costa. Tragico il destino di tanti piloti, non ultimo il compianto Colin McRae, anche lui scomparso in un incedente aereo.

La moto è un bellissimo mezzo di comunicazione e di divertimento, ed anche se ha volte la colpa non è nostra, cerchiamo di avere occhi anche per gli altri, oppure organizziamoci come ho fatto io, che almeno cinque volte l'anno vado in bellissimi circuiti europei, boicottando le piste italiane, affinchè abbassino i prezzi. Andate su http://www.powerupzone.com/ e regalatevi una tre giorni full immersion a BRNO o Pannonia Ring, godete dei cavalli delle vostre moto, e provate ad andare forte, se ci riuscite...

Ciao Abe, saluta Kato e tutti i ragazzi che ci seguono da lassù, e ogni tanto buttate un occhio quaggiù, come angeli dei motociclisti, come avete già fatto con me qualche volta....



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Pensiero sul TT


Ho appena finito di leggere un articolo sui piloti del TT, nella fattispecie uno riguardante un certo “Spook”, e mi è piaciuta molto le fine spirituale, immaginando tutti i piloti passati a miglior vita come spettatori di ogni nuova edizione del TT. Nel sito da cui ho letto l’articolo, ci sono anche tributi a persone scomparse in strada, durante la classica giratina del Sabato e della Domenica. Chi scrive è un ex pilota dilettante, nonché istruttore di guida e organizzatore di eventi per amatori, per cercare di promuovere il motociclismo su pista. Ma sono anche uno che punta molto il dito contro chi va per strada, sui passi, come se fossero prove cronometrate, infischiandosene che non siamo più negli anni 70, e che Joe Bar è solo un fumetto, ma non ho mai giudicato bene o male il TT. Lo guardo distaccato, ammiro il coraggio dei guerrieri che sfrecciano a velocità folli accanto alle case, quando decollano in mezzo agli alberi. Ho tentato di farmelo piacere, come amo la pista, ma non ci sono riuscito. Però rispetto le persone che curano con passione una vecchia tradizione che non può essere spiegata a parole, ma solo vissuta. Forse un giorno prenderò la mia moto da turismo, e farò un giro all’isola di Man, magari non nei giorni del TT, e cercherò di entrare in sintonia con il tracciato, e con le stelle che mi staranno a guardare, chiedendogli scusa se la mia media sarà di 40 all’ora, e magari la mia moto sarà una BMW e non la mia fedelissima Suzuki che mi accompagna per i circuiti di tutta Europa. Chissà se indossando un Arai giallo con delle striscioline nere mi farà da attenuante…….

La storia del gatto che prevede la morte

di Vittorio Macioce
Questo è un ospedale. La stanza è la 313. Il bambino guarda la nonna, guarda il gatto sul letto e poi la madre: «Cosa ci fa lì sopra». La mamma risponde con un sorriso senza speranza: «È qui per aiutare la nonna ad arrivare in cielo».
Dicono che lui, il gatto, senta la morte. Oscar è bianco e grigio, occhi piccoli, strizzati, soffice come un peluche e un brutto carattere. È nato qui, due anni fa, nella clinica Steere House di Providence, Rhode Island, Stati Uniti. È un ospedale per anziani con malattie degenerative. Oscar se ne sta spesso per i fatti suoi, nessuna confidenza, niente carezze. Ma ogni mattino, da quando aveva solo sei mesi, fa il suo giro di visite. Passa davanti alle stanze dei pazienti, si ferma, annusa, e va via. Quando resta vuol dire che non c’è più nulla da fare. In un anno e mezzo è capitato 25 volte. È l’angelo della provvidenza. Salta sul letto e aspetta, raggomitolato, fino alla fine. Chi passa lo ascolta fare le fusa. Medici e infermieri ormai sanno che questo è il momento di avvertire i parenti. Oscar non sbaglia mai.
L’ultimo respiro è difficile da percepire. È un battito un po’ più profondo degli altri. È un addio silenzioso. Ma i gatti hanno occhi che vedono anche di notte, sentono oltre e nell’istante preciso in cui tutto è compiuto Oscar si alza e lascia la stanza. Felpato, senza un rumore, taciturno come sempre. Un medico racconta che di solito tra l’arrivo di Oscar e la morte passano poche ore. «Non più di quattro».
Providence non è una città qualunque. Qui, in una grande casa vittoriana di legno marrone al numero 10 di Bernes Street, viveva Howard P. Lovecraft. L’autore dei Cicli di Cthulhu, lì dove l’uomo si specchia nei suoi orrori, la psiche diventa corpo e la metafisica dei nostri incubi genera la carne dei mostri, aveva una passione quasi paranoica per i gatti. C’è anche un suo saggio, Something about cats, pubblicato sulla rivista Leaves nel 1937, ma è nel racconto I gatti di Ulthar che Lovecraft svela i segreti di Oscar. «A me basta osservarli quando fanno le fusa accanto al fuoco. Il gatto è misterioso e affine alle cose invisibili che l’uomo non potrà mai conoscere. È l’animo dell’antico Egitto, è il depositario di racconti che risalgono alle città dimenticate di Meroe e Ophir, è l’erede dei segreti dell’Africa oscura e misteriosa. La sfinge è cugina del gatto, che parla la sua stessa lingua ma è più antico e ricorda cose che essa ha dimenticato». Ecco, capite perché la storia di Oscar, così vera da evocare le fantasie nere del New England di Lovecraft, non poteva aver luogo che qui, a Providence.
Dicono che le prime a notare il mistero di Oscar siano state le infermiere. La notizia è arrivata fino al New England Journal of Medicine e dall’Università di Brown è stato inviato David Dosa, specialista in geriatria. «Sembra che Oscar faccia sul serio il suo lavoro. Non fa mai errori. Come un sensitivo sembra riesca a percepire quando un paziente è vicino a morire». Il caso sta appassionando gli scienziati. Dotti, medici e sapienti guardano il gatto e si interrogano. Qualcuno si è messo a studiare la giornata tipica di Oscar e c’è tutto il fascino della scienza che incontra l’indefinibile. La dottoressa Joan Teno racconta che una paziente non mangiava più, aveva problemi di respirazione e le sue gambe erano di un colore bluastro, sintomi di una morte imminente. Ma Oscar quella volta non era rimasto nella stanza. «Pensavo si fosse sbagliato, ma dopo dieci ore è apparso. È rimasto due ore accanto alla paziente e solo allora la donna è morta». Il New England Journal of Medicine non crede che Oscar sia un gatto magico. La scienza cerca, sempre, prima altrove. Il felino è sveglio, certo, e le ipotesi sono varie. Forse, come accade a volte anche agli infermieri, riesce a interpretare il respiro affannoso del moribondo. Forse è l’odore, qualcosa che il gatto riesce a percepire grazie al suo olfatto. Forse Oscar è, come il dottor House, un ottimo osservatore. La dottoressa Teno se la cava così: «Credo che alcune sostanze chimiche vengano rilasciate nell’atmosfera quando uno è sul punto di morire. E il gatto le riconosce». O magari aveva ragione quel vecchio folle di William S. Burroughs quando scriveva in Compagno psichico «Noi siamo il gatto che è in noi. Siamo i gatti che non possono camminare da soli, e per noi c’è un posto soltanto».

L’altra passione di Hollywood

Il caso di Mel Gibson, ebbramente antisemita, riapre la questione della competizione fra cristiani ed ebrei per il controllo della fabbrica dei sogni e quindi dell’anima dell’Occidente. Piccolo ripassino in forma di sermone

di Craig Detweiler

La rottura tra Hollywood e la comunità cristiana non è mai stata così visibile come nelle controversie suscitate dal film di Mel Gibson La Passione di Cristo. Nel gennaio 2003, nonostante Mel Gibson fosse nel bel mezzo delle riprese, decise di partecipare ad un talk show d’impronta conservatrice, The O’Reilly Factor. Sembra che un giornalista avesse “scavato” così a fondo nella vita privata dell’attore da avvicinare perfino il padre ottantacinquenne per cercare informazioni che oltre a far apparire Gibson come un fanatico avrebbero screditato il suo film. Il conduttore O’Reilly chiese a Gibson se il film avrebbe potuto offendere gli ebrei e lui rispose dicendo «Potrebbe, ma non è nelle mie intenzioni».Questa semplice apparizione di Gibson fu sufficiente a convincere gli ebrei che erano ancora una volta attaccati dai cristiani che li accusavano dell’assassinio di Gesù; e fu sufficiente a convincere la comunità cristiana, che per l’ennesima volta il proprio credo era messo sotto accusa dai media laicisti. Da un giorno all’altro i mezzi di comunicazione di massa iniziarono a speculare sulla possibilità che Gibson con il suo film volesse o meno promuovere un’ideologia antisemita e improvvisamente Gibson divenne l’emblema delle frustrazioni provocate ai cristiani dai mezzi di comunicazione di massa.
Prima che il New York Times Magazine pubblicasse l’indagine condotta dal giornalista sulla vita di Gibson, questi aveva già iniziato a mostrare il suo film alle chiese e a giornalisti d’impronta conservatrice. La loro parola bastò perché i cristiani accogliessero il film senza riserve. Gli schieramenti oramai erano formati. Le notizie provenienti da Hollywood non promettevano niente di buono: Gibson avrebbe infatti avuto grosse difficoltà a trovare una casa di distribuzione per il suo lavoro. Anche la Fox che generalmente distribuisce i film di Gibson si rifiutò, altre case di distribuzione fecero lo stesso. L’indignazione della comunità cristiana si riversò dai giornali a Hollywood. Molti ricordarono infatti i tappeti rossi con cui Hollywood in passato aveva accolto L’ultima tentazione di Cristo, un film giudicato blasfemo.
Alla fine Gibson riuscì a firmare un contratto con la Newmarket, una casa di distribuzione di piccoli film indipendenti. Le speculazioni dei media si intensificarono, a Hollywood molti erano convinti che Gibson dopo questo film non avrebbe più lavorato. La copertina dell’Entertainment Weekly si domandava «Riuscirà Gibson a sopravvivere a La Passione di Cristo?». Nel frattempo la comunità cristiana stava facendo del film di Gibson un vero e proprio evento, decisa ad inviare a Hollywood un messaggio. Le chiese di tutto il Paese prenotarono per tempo i biglietti del cinema. Il film ebbe un successo strepitoso: incassò 125 milioni di dollari nei primi cinque giorni di proiezione nelle sale. Raggiunse poi un incasso mondiale pari a 610 milioni di dollari. Hollywood cedette al successo del film che venne acquistato da una major per essere distribuito in dvd. L’ Entertainment Weekly proclamò Gibson l’uomo più potente di Hollywood. La comunità cristiana aveva vinto.
Ma era proprio vero?La Passione era un film davvero notevole ma per la comunità cristiana si è rivelato un’opportunità mancata. Come seguaci di Cristo avremmo infatti dovuto sfruttare le controversie suscitate dal film per cercare di conoscere meglio la comunità hollywoodiana e per costruire un nuovo rapporto con essa. Invece, l’abbiamo usato come una nuova arma per proseguire la culture war. Non possiamo permetterci di perdere un’altra simile occasione. I cristiani dovrebbero conoscere meglio la storia, in particolar modo il difficile rapporto che Hollywood ha con la politica americana. Dobbiamo renderci conto che Hollywood non ha alcun problema con Gesù, bensì con i Suoi fedeli – o più precisamente con quei fedeli che approvano la politica repubblicana. Dobbiamo comprendere che per la comunità di Hollywood, prioritariamente ebraica, ogni protesta, boicottaggio o manifestazione risveglia terribili visioni dal passato politico. Quando i cristiani parlano di boicottaggio Hollywood sente la parola pogrom.
L’inizioLa storia di Hollywood inizia nel New Jersey nello studio “Black Maria” di Thomas Edison. Nel 1891 Edison richiese il brevetto per una cinepresa chiamata Kinetograph e per un visore caratterizzato da uno spioncino chiamato Kinetoscope. Attraverso il cinetoscopio l’osservatore poteva sperimentare l’illusione e il divertimento nel guardare immagini in movimento. Sfortunatamente Edison non immaginò il successo che avrebbe potuto riscuotere nel proporre queste immagini in movimento ad un gruppo di persone.Furono i fratelli Lumière che, nel 1895 in Francia, introdussero la proiezione – e la fruizione collettiva – con il loro Cinematographe: l’esperienza del grande schermo che noi chiamiamo “cinema” era nata.Allora perché parliamo di Hollywood anziché di Parigi, o di West Orange nel New Jersey? E come mai un’industria fondata da un cristiano d’epoca vittoriana come Edison è finita per essere dominata da immigrati ebrei? Anche se Edison possedeva il brevetto per la produzione di immagini in movimento l’industria cinematografica fece affari grazie alla proiezione dei film. Edison tutelò la sua produzione filmica con aggressive strategie legali, ma invano; egli infatti non possedeva le sale dove poter proiettare i film.
I cristiani dell’epoca vittoriana consideravano l’Opera e la sinfonia come legittime forme artistiche, ma vedevano invece il cinema come una nuova forma d’intrattenimento modesta e di basso livello. Com’era già accaduto in passato con il vaudeville, si preferiva lasciare la gestione di questa nuova forma d’intrattenimento, considerata alquanto discutibile, alla libera iniziativa degli immigrati. In coincidenza con l’inizio dei pogrom europei, giovani ebrei immigranti popolarono la costa orientale degli Stati Uniti, attirati dalle promesse incarnate dalla Statua della Libertà. Eppure, molti dei nuovi ebrei appena immigrati, letterati, avvocati, uomini d’affari non riuscirono a svolgere le professioni “legittime” a causa dei forti pregiudizi della élite formata dai bianchi anglosassoni e protestanti (Wasp). Sale giochi e teatri d’operetta offrirono quindi a questi immigranti posti di lavoro dal generoso profitto.
Con l’avvento dei nickelodeon (nome dato dalle prime sale cinematografiche nel 1905 così chiamate dal prezzo del biglietto d’ingresso, un nickel, ndt), sale cinematografiche dedicate unicamente alla proiezione di film, la nascente industria cambiò per sempre. Nel 1908 le sale cinematografiche registravano già ottanta milioni di spettatori la settimana (da notare che l’intera popolazione degli Stati Uniti contava cento milioni di abitanti). Anziché acquistare le pellicole cinematografiche e proiettarle fino a quando si rovinavano o si rompevano del tutto, le sale avevano bisogno di un ricambio continuo di film ogni settimana; così iniziarono a noleggiare le pellicole anziché comperarle. Fu allora che nacque nell’industria cinematografica un nuovo sistema, tuttora in vigore, caratterizzato da tre momenti precisi: produzione, distribuzione e proiezione nelle sale.Edison fece di tutto per consolidare il controllo dell’industria; un insieme di pressioni legali, minacce, accordi segreti, gli permise di raggruppare nove compagnie cinematografiche di rilievo (come Biograph, Vitagraph e Pathé) sotto l’unico nome di Motion Picture Patents Company. La società di Edison strinse inoltre un accordo esclusivo con George Eastman il quale garantì di vendere pellicole solo alla Patents Company. Dopo aver consolidato la produzione la Patents Company di Edison aumentò i prezzi sia ai distributori sia ai proprietari delle sale cinematografiche.
Sia gli uni che gli altri si ribellarono a questo monopolio; distributori e proprietari di sale ebrei come Carl Leammle e William Fox decisero di diventare produttori comperando pellicole dall’Europa. Ma come avrebbero potuto risolvere il problema del brevetto sulle macchine da presa di cui Edison deteneva l’esclusiva? I produttori si spostarono verso ovest, il più lontano possibile dalla costa orientale dove Edison esercitava il suo potere.Il sud della California offriva un’ampia scelta di luoghi dove poter girare i film, dalle montagne desertiche al mare; la città di Los Angeles offriva inoltre un clima splendido sempre caldo e soleggiato (necessario dal momento che anche le riprese degli interni erano fatte all’aperto, usando la luce del sole come fonte primaria d’illuminazione). Le regole sociali sulla costa occidentale erano fluide, guidate più dal denaro che dalla posizione sociale di famiglia; Los Angeles era quindi la località perfetta perché gli immigrati costruissero la propria fortuna. La cosa più importante era comunque la lontananza che separava Los Angeles dal luogo in cui Edison esercitava il suo monopolio sull’industria cinematografica.
Carl Laemmle costituì l’Independent Motion Picture Company (che si trasformò poi negli Universal Studios), William Fox diede vita alla 20th Century e Adolph Zukor formò la Famous Players in Famous Plays, che più tardi prese il nome di Paramount. Neil Gabler ha tracciato il cammino di questi pionieri del cinema nel suo notevole testo storico An Empire of Their Own: How the Jews Invented Hollywood. Gabler in questo libro racconta in modo dettagliato l’esperienza comune dei primi grandi magnati del cinema – i loro sofferti primi anni nell’Europa Orientale, la perdita dei loro padri, la fuga dalle persecuzioni, il desiderio di diventare americani a tutti gli effetti, fino al loro grande successo finanziario grazie al cinema. Nel 1915, quando la Motion Picture Patents Company venne giudicata un trust illegale, finalmente per i produttori ebrei indipendenti Edison non costituì più alcuna minaccia.Riconoscendo nel film uno strumento dal grandioso potenziale d’evangelizzazione, i leaders cristiani sollecitarono vivamente le chiese ad utilizzare questa nuova tecnologia con fini religiosi. Nel 1911 K.S. Hover scriveva: «Satana ha un nuovo nemico. I cristiani stanno combattendo il Male con gli stessi film brillanti, precedentemente usati solo per divertire e in qualche caso per istruire. La macchina da presa è diventata un predicatore e i suoi sermoni sono più efficaci perché indirizzati all’occhio invece che all’orecchio» (The Silents of God: Selected Issues and Documents in Silent American Film and Religion, 1908-1925, Lanham, MO, Scarecrow Press, 2001). Considerando i film come efficaci strumenti per attirare la gente alla funzione della domenica pomeriggio, sempre più chiese acquistarono proiettori.
I film epici di D.W. Griffith, Birth of a Nation e Intolerance, dimostrarono come questo nuovo intrattenimento stesse diventando una vera e propria forma d’arte. Griffith introdusse nuove tecniche come il primo piano e il montaggio alternato creando di fatto un nuovo linguaggio visivo. La crescente ricchezza e sofisticazione dei film impressionò i cristiani; un pastore osò dichiarare sulla rivista Photoplay (del marzo 1920) «Se Cristo fosse andato al cinema avrebbe approvato questi film». Un regista russo, Sergei Ejsenstejn, adottando le tecniche di montaggio di Griffith creò sequenze di montaggio vorticose in film come La Madre, La Terra e La Corazzata Potemkin. L’entusiasmo dei propagandisti sovietici per il cinema sarebbe durato più a lungo rispetto a quello dei pastori americani. Con l’introduzione del sonoro nel 1927 i film divennero più popolari (e redditizi) che mai. Se in passato i riformatori religiosi avevano visto nell’alcol e nella teoria dell’evoluzione i mali della società, con l’abolizione del proibizionismo e il divieto d’insegnamento della teoria darwiniana, poiché contraria alla creazione divina, questi guardiani della morale misero Hollywood nel mirino. Chiese e sale cinematografiche si contendevano il pubblico soprattutto di domenica. Molti leaders religiosi richiesero un rafforzamento rigoroso delle leggi restrittive per vietare qualsiasi attività commerciale la domenica che doveva essere mantenuta il giorno del Signore; sacerdoti e pastori incitavano i loro fedeli a scegliere tra la chiesa e il cinema.
Il comportamento scandaloso di alcune stelle del cinema come Mary Pickford e Fatty Arbuckle non fecero che aumentare il risentimento nei confronti di Hollywood. Nel 1920 l’innocua immagine di “fidanzata d’America” della Pickford venne danneggiata quando l’attrice divorziò dal marito e sposò l’attore Douglas Fairbanks dopo sole tre settimane. Fatty Arbuckle venne processato per omicidio colposo dopo una festa selvaggia svoltasi a San Francisco, terminata con la morte di Virginia Rappe. Dopo tre processi (i primi due terminarono con il mancato raggiungimento del verdetto) Arbuckle non fu ritenuto colpevole. Ma l’opinione pubblica lo aveva ormai condannato e la sua carriera di attore comico era finita. Nel 1922 un libro dall’eloquente titolo The Sins of Hollywood (I peccati di Hollywood) era già annoverato tra i best seller. Nei sermoni e nei discorsi tenuti in tutto il Paese, Hollywood veniva dipinta come “l’incubatrice del diavolo”, la fonte della degradazione morale in America. Nel 1930 il laico cattolico Martin Quigley e il gesuita Daniel Lord tracciarono una serie di linee guida morali per i produttori di film, conosciute col nome di Hollywood Production Code. Questo codice regolava la rappresentazione della sessualità e del crimine e raccomandava che i nuovi film non utilizzassero parole come God, hell e damn. I film avrebbero anche dovuto affermare la religione e promuovere il patriottismo. In un decennio particolarmente tumultuoso, la relazione tra i cristiani e Hollywood passò dalla lode alla competizione alla guerra aperta.
Non è difficile immaginare quale fu la reazione degli studios al tentativo di essere controllati dalla Chiesa. Immaginate: dopo esser sopravvissuti alle sommosse popolari antisemite nell’Europa Orientale, giungete finalmente in America, la terra delle opportunità. Intraprendete un business altamente redditizio gestendo sale da gioco. Quando Edison cerca di imporvi le proprie decisioni voi gli mostrate ciò di cui siete capaci: fuggite in California, la terra della corsa all’oro, vincete contro Edison in tribunale e diventate milionari guadagnando centesimo dopo centesimo. Poi, dopo tutta questa fatica, la Chiesa decide di fare di voi il bersaglio della sua ultima crociata per ripulire l’America. La reazione è di ignorare queste prese di posizione, almeno finché ci si riesce.Hollywood riuscì a tener testa al Production Code per parecchio tempo fino a quando nel 1933 l’associazione Catholic Legion of Decency minacciò di attuare un boicottaggio economico. Con gli incassi ai botteghini che già calavano a causa della Grande Depressione, la Motion Picture Producers and Distributors of America (precursore dell’attuale MPAA, the Motion Picture Association of America) assunse l’ex presidente nazionale del partito Repubblicano, Will Hays, per sostenere il Production Code.
Hays col suo background di autoritario pastore presbiteriano riuscì a placare i contestatori protestanti. Nel luglio del 1934 l’Hays Office assunse Joseph Breen, un giornalista di fede cattolica, come capo della nuova amministrazione del Production Code. Notate bene com’era costituito il triumvirato che deteneva il potere: magnati ebrei assumono un cattolico della chiesa di Roma per valutare i propri film e un protestante per tranquillizzare le masse. Le case di produzione presentavano i loro copioni e i loro film girati a Breen per essere approvati; il risultato che si ottenne è oggi conosciuto col nome di Età dell’oro di Hollywood, l’epoca delle grandi case di produzione e di film come Ombre Rosse, Casablanca e Via col vento.Il Production Code ispirò la creazione di nuovi generi; i cineasti, spinti a sublimare gli elementi sessuali dei loro copioni, crearono le commedie brillanti e veloci conosciute come screwball comedies. Essendo proibite non solo le scene di letto ma anche i lunghi baci appassionati, i protagonisti si scontravano con ingenuità e intensità; la tensione sessuale veniva espressa con scontri verbali e una gestualità comica. I film di Preston Sturges, Gorge Cukor e Howard Hawks ispirano ancora oggi le moderne commedie romantiche, film come Harry ti presento Sally e Insonnia d’amore.
Hollywood modificò inoltre la percezione che l’America aveva di sé attraverso patriottiche esaltazioni dell’uomo comune. Il film di Frank Capra del 1939, Mr Smith va a Washington, celebrava l’onestà, il duro lavoro e la possibilità per un uomo onesto di poter fare la differenza. Film drammatici come Furore (1940) raccontavano il viaggio degli Okies – gli abitanti dell’Oklahoma – verso la California con affermazioni come: «Noi siamo la gente (We’re the people) e continuiamo a giungere». Musical, come Ribalta di gloria del 1942, coglievano in pieno il fervore patriottico che accompagnava l’inizio della Seconda guerra mondiale. Andare al cinema era così popolare da divenire il passatempo nazionale preferito; i film definirono l’America come la terra delle opportunità, sostenitrice di ogni individuo e protettrice dei poveri. Lo storico Neil Gabler sottolinea l’ironia della situazione. Gli immigranti ebrei esclusi dal sistema e messi sotto pressione dalla Chiesa presentano un’America fortemente idealizzata che i cattolici e i protestanti abbracciano con tale fervore da soffocare la vera realtà americana. La mitologia filmica realizzata dagli ebrei immigrati divenne la versione ufficiale della storia degli Stati Uniti.
Durante la Seconda guerra mondiale, i professionisti hollywoodiani si schierarono in prima linea al servizio della propaganda di guerra; le sceneggiature venivano sottoposte al dipartimento della difesa per essere approvate. I film celebravano gli sforzi delle truppe alleate, tra cui Francia, Gran Bretagna e Unione Sovietica; gli americani erano uniti dal patriottismo celebrato da film come Destinazione Tokio (1943), C’è sempre un domani (1945) e Operazione Burma! (1945). Alcune star del cinema offrirono il proprio contributo durante la guerra; Jimmy Stewart e Clark Gable, per esempio, si guadagnarono medaglie al valore per aver compiuto missioni di bombardamento aereo sopra i cieli della Germania. Registi come Frank Capra, John Ford e John Huston girarono documentari ormai classici come La battaglia delle Midway (1942), e Prelude to War (1943), ricordando agli Stati Uniti “Perché combattiamo” (Why We Fight). Hollywood decise anche di adattare per il pubblico americano documentari russi; il film Moscow Strikes Back del 1942 vinse perfino un Oscar come miglior documentario.
Con la fine della guerra, l’unità delle forze alleate venne meno, la città di Berlino venne spezzettata, gli scienziati nazisti e la loro tecnologia militare d’avanguardia vennero reclutati sia dagli Stati Uniti sia dalla Russia. Con la detonazione della bomba atomica nel 1947 per opera dei russi la guerra fredda si inasprì. Gli americani vollero scoprire chi aveva rivelato ai russi il segreto per la costruzione della bomba atomica, così l’House Un-American Activities Commitee (HUAC) presieduto da J. Parnell Thomas, un repubblicano del New Jersey membro del congresso, condusse un’indagine meticolosa all’interno di ogni organo governativo cercando di capire dove mai potesse nascondersi la spia comunista. Quei film filo russi, come Moscow Strikes Back nati con l’approvazione del governo durante la guerra, iniziarono a destare sospetti e Hollywood fu marchiata come terreno di coltura di spie comuniste.
I magnati delle case cinematografiche, dopo essere sopravvissuti al pogrom, all’immigrazione, al Production Code e alla Seconda guerra mondiale non avevano intenzione di sacrificare la loro autonomia finanziaria sull’altare della politica. Produttori di fede repubblicana come Louis B. Mayer e Jack Warner accettarono di testimoniare davanti al congresso giurando di non assumere nessuno che fosse considerato o sospettato di essere comunista. Attori come Adolphe Menjou e Gary Cooper dichiararono sotto giuramento di essere a conoscenza dell’esistenza di attività comuniste che coinvolgevano attori e scrittori. Ronald Reagan, collaborando con l’HUAC, si dimostrò un testimone molto collaborativo.
Diciannove produttori cinematografici sospettati di appoggiare il partito comunista vennero citati in giudizio a Washington con l’accusa di essere “testimoni non collaborativi”. Molti di loro erano i figli di immigrati ebrei a conoscenza delle dure battaglie combattute dai loro padri per la conquista della libertà; molti erano anche comunisti, attratti dall’abilità del “guru” russo della recitazione, Stanislavskij, e sostenitori dei rivoluzionari di sinistra durante la guerra civile spagnola. Undici di questi testimoni non collaborativi citati in giudizio vennero chiamati a testimoniare. Bertolt Brecht evitò il processo fuggendo in Germania, ma altri dieci professionisti di Hollywood comparirono di fronte al Congresso e si appellarono al diritto di rimanere in silenzio per mantenere il segreto di voto e le garanzie costituzionali. Furono accusati di disprezzo del Congresso e spediti in prigione; per questi “Dieci di Hollywood” la politica americana fu una pillola molto amara da ingoiare. Proclamati patrioti durante la guerra mentre scrivevano opere come Obiettivo Burma! e Destinazione Tokio questi dieci trovarono l’assetto politico profondamente cambiato: la terra della libertà li aveva derubati del loro sostentamento, li aveva separati dalle proprie famiglie e rinchiusi in prigione perché avevano esercitato le loro libertà garantite dalla Costituzione.
La prigionia dei “Dieci di Hollywood” non fermò la caccia alle streghe. I notevoli sforzi messi in atto dal senatore repubblicano Joseph McCarthy del Wisconsin servirono solo ad aumentare le tensioni. Nell’impegno di collaborare con l’HUAC, le case di produzione di Hollywood misero sulla lista nera centinaia di scrittori, registi e attori dichiarandoli “persone non gradite” e mettendoli alla porta.Gli acclamati scrittori di film patriottici come Mr Smith va a Washington e Furore ora erano considerati sovversivi autori di propaganda volta ad insidiare il governo e sollevare in rivolta il proletariato. Alcuni scrittori elencati sulla lista nera continuarono a lavorare di nascosto spesso aiutati dai colleghi non perseguitati che sarebbero stati pagati e avrebbero firmato il lavoro fatto in realtà dagli scrittori “proibiti”, finiti sulle liste nere. Dalton Trumbo vinse l’Oscar per aver scritto La più grande corrida (1956) con lo pseudonimo di Robert Rich. L’autore francese Pierre Boulle nel 1957 con Il ponte sul fiume Kwai vinse l’Oscar per la miglior sceneggiatura, benché non parlasse inglese. Solo recentemente la Writer’s Guild of America ha reso i giusti meriti.
Ciò che non è stato dimenticatoAllora perché non c’è quasi nessun repubblicano a Hollywood? Il clima anticomunista e le azioni dell’HUAC sicuramente non hanno più alcuna importanza. Non sono una vecchia storia? L’Oscar alla carriera con cui venne premiato nel 1999 il regista Elia Kazan è un caso illuminante. Kazan è stato forse il più grande direttore di attori nella storia del cinema. Nato da genitori greci in Turchia, Kazan giunse in America all’età di quattro anni e si laureò alla prestigiosa scuola teatrale di Yale. Partecipò al Group Theatre, fu co-fondatore dell’Actors Studio e diresse significative produzioni di Broadway come Erano tutti miei figli, Un tram chiamato desiderio e Morte di un commesso viaggiatore. I suoi primi film trattavano tematiche come l’antisemitismo (Barriera invisibile), l’ingiustizia (Boomerang!) e il razzismo (Pinky la negra bianca). La sua inclinazione artistica (e politica) verso la sinistra lo fece diventare un facile bersaglio per l’House Un-American Activities Committee. Kazan ammise e poi abiurò le sue simpatie comuniste offrendo al congresso una lista coi nomi di amici e colleghi comunisti; la sua testimonianza gli permise di continuare a lavorare.
I dilemmi etici nati intorno alla convocazione di Kazan di fronte al Congresso trovarono parallelismi significativi nel suo film Fronte del Porto del 1954, dove Marlon Brando offre un’interpretazione memorabile nei panni di un pugile dalla carriera stroncata, Terry Malloy, che lotta con la propria coscienza cercando di decidere se testimoniare o meno contro il sindacato criminale in cui è coinvolto suo fratello. Il celebre discorso che Brando rivolge al fratello «Avrei potuto essere un nemico» sul sedile posteriore della macchina rimane una delle scene più affascinanti nella storia del cinema. Fronte del porto esprime la grandiosità dell’essere una spia, trasformando la testimonianza di Terry (e dello stesso Kazan) nel più grande atto di eroismo. Hollywood attribuì a questo film otto Oscar, e tra i premiati ci furono coloro che collaborarono con l’HUAC, lo sceneggiatore Budd Schulberg e il regista Elia Kazan.
Quarantacinque anni dopo, l’Oscar alla carriera divenne un occasione per far riemergere rancori a lungo soffocati e questioni mai risolte alla radice. Sebbene Kazan avesse avuto diverse occasioni per scusarsi con gli amici e i colleghi traditi, il regista non rinnegò mai pienamente le sue azioni.In un’intervista del 1974 Kazan spiegò il suo gesto: «Dovevo scegliere tra due mali – da allora ho spesso pensato che il mio fare nomi sia stato vergognoso, anche se quelle persone erano già sospettate prima che io le denunciassi pubblicamente, quindi non sono stato io a gettarle nelle mani della polizia; tutti sapevano chi erano, era lampante. è stato un gesto scontato da compiere perché esprimeva ciò che pensavo all’epoca. Giusto o sbagliato non è stato niente di inventato. Ne ero veramente convinto» (Elia Kazan: Interviews, Jackson MI: University Press of Mississippi, 2002).
Nel 1999, alla vigilia del suo Oscar alla carriera, costosi annunci pubblicitari, grandi una pagina intera, riempirono il Daily Variety e l’Hollywood Reporter chiedendo ai membri del comitato di consegna degli Oscar di ricordare il tradimento compiuto da Kazan. The Village Voice, realizzando una mordace vignetta raffigurante Kazan,criticò la sua premiazione ritenuta ingiusta in seguito al suo riprovevole comportamento. La notte degli Oscar, quando Kazan salì sul palco, la lunga e dolorosa vicenda del suo tradimento tornò a galla. Stelle del cinema decisamente liberal come Robert De Niro e Warren Beatty si alzarono in piedi per mostrare la propria stima e il proprio sostegno a Kazan, il regista che molti anni prima li aveva lanciati. Invece attori affermati come Nick Nolte e Ed Harris rimasero seduti ai loro posti, accigliati, ancora furiosi per la testimonianza di Kazan. Il comportamento di Steven Spielberg e Jim Carrey, che applaudirono educatamente senza però alzarsi in piedi, fu la reazione condivisa dalla maggior parte del pubblico in sala. Questo fu l’estremo affronto che il più grande direttore di attori nella storia di Hollywood dovette subire, come prezzo del suo tradimento negli anni Cinquanta. Kazan terminò il suo breve discorso con la triste riflessione «Forse adesso posso solo scivolare via».
Senza dubbio i dibattiti accesi e le storie dolorose che hanno avvolto lo Shrine Auditorium durante la notte degli Oscar non sono state colte dalla maggior parte dei telespettatori a casa. Hollywood tuttavia, negli anni Cinquanta, manifestò in vari modi sul grande schermo la sua comprensibile paura per le ripercussioni dell’“era McCarthy”. Film di quell’epoca come Mezzogiorno di fuoco del 1952 e L’invasione degli ultracorpi del 1956 possono essere letti come interpretazioni sottilmente velate sulle audizioni dell’HUAC. Eroi solitari considerati dei folli cercano di liberare intere città oppresse da paure e ignare di tutto quello che minaccia la società. Il prestanome (1976), Indiziato di reato (1991) e The Majestic (2001) ricreano la paranoia e la sofferenza causata dai processi, offrendo letture alternative degli anni Cinquanta. Perché Hollywood continua a raccontare dell’esistenza di una lista nera? Come Mosè un tempo descrisse dettagliatamente il suo Esodo, gli ebrei di oggi stanno semplicemente raccontando di nuovo la loro storia, così nessuno potrà mai dimenticare ciò che è accaduto.
Dopo aver scritto film di fantasia come Big e Dave, nel 1998 Gary Ross debuttò alla regia con Pleasantville, la sua opera più personale. Nella comunità cristiana questo film venne giudicato da molti come un attacco ai valori familiari, un tentativo di indebolire il nucleo familiare celebrando la libertà sessuale e l’adulterio. Il critico cristiano di cinema Phil Boatwright disse: «Gli autori di questo film vogliono convincere la gioventù di oggi che gli anni Cinquanta erano dominati da burocrati che erano teste vuote senza alcuna tolleranza per le libertà personali». Proprio così. Per Ross il film era l’occasione per poter ricordare la storia del proprio padre, lo sceneggiatore Arthur Ross, il cui nome fu annotato sulla celebre lista nera. Per quegli artisti che sono stati letteralmente imprigionati a causa dei loro principi, Pleasantville simboleggia la difesa di ogni libertà: di espressione, di dissenso o di essere una società antirazzista. Ross col suo film sconsiglia caldamente quelli che incoraggiano l’America a guardare al passato, a tornare ai modi più gentili e cortesi degli anni Cinquanta. Pleasantville ci mostra infatti che le cose non erano poi così piacevoli per la gente di colore o per quelli che non si conformavano agli standard cristiani. Gli anni Cinquanta potrebbero non essere così innocenti – o cristiani – come affermano le persone di fede. Ross crede che «Ogni epoca ha la sua falsa nostalgia. Noi tutti idealizziamo qualche cosa, per la mia generazione sono stati gli anni Cinquanta, per le altre generazioni sarà qualche cosa d’altro». Certamente quelli di noi che sono nati dopo gli anni Cinquanta non possono immaginare di ritornare a vivere in un luogo e in un’epoca che non hanno mai visto se non tramite la replica di alcuni film. Forse i conservatori e i cristiani stanno dicendo all’America di ritornare a essere quel luogo esistito solo al cinema o in televisione, ovvero nella versione della storia proposta da Hollywood. La bizzarra ironia di prima si ripete.
Le controversie su La Passione di Cristo hanno offerto alla comunità cristiana l’opportunità di costruire ponti con la comunità ebraica di Hollywood, ma i cristiani hanno perso questa opportunità per la loro ignoranza della dolorosa storia di Hollywood. Quando La Passione, ancora prima di giungere sul grande schermo, iniziò a suscitare nella comunità ebraica la paura che il film promuovesse un messaggio antisemita, i cristiani ebbero una prima occasione per poter osservare la relazione tra la sofferenza di Gesù sulla croce e la persecuzione subita nella storia dalla comunità ebraica. Anziché riconoscere le colpe dei nostri padri verso la popolazione ebraica, la comunità cristiana si è stretta intorno a Mel Gibson e alla sua persecuzione realizzata dalla stampa liberal. Ci siamo innanzitutto identificati con le sofferenze di Mel, bistrattato dall’intellighenzia ebraica. Ancora sofferenti per la perdita del nostro potere culturale ci siamo considerati al posto di Gesù, sulla croce, proprio nel momento in cui Egli avrebbe voluto che noi dichiarassimo le nostre colpe per la sofferenza causata ad altri. L’invito di Gesù all’umiltà collettiva è stato trasformato in una chiamata alle armi per tutti coloro che desideravano vincere la guerra culturale.
Abbiamo accolto La Passione di Cristo come un’irripetibile opportunità per trasformare una cultura decaduta, però ci siamo comportati come una minoranza perseguitata impegnata in una resistenza armata. Abbiamo gridato vittoria al botteghino ma abbiamo perso l’opportunità di colmare la distanza culturale tra la comunità cristiana e la Hollywood ebraica.
Quando l’Anti-Defamation League accusa La Passione di Cristo di incoraggiare di nascosto una prospettiva antisemita non sta solamente attaccando un film, ma lo stesso Mel Gibson e quello che le sue idee politiche rappresentano. Quando Mel Gibson difende il proprio film durante un talk show conservatore come il The O’Reilly Factor, non fa che rinforzare le paure di una intromissione conservatrice. I cristiani che giustificano il ritratto degli ebrei proposto dal film semplicemente come il rispecchiarsi della testimonianza biblica non comprendono l’amara ironia che vi sta dietro. Chi ha ucciso Gesù? Come dimostra abilmente La Passione sono stati i più sinceri difensori di Dio a collaborare col governo per far condannare e crocifiggere Gesù. I farisei e i sommi sacerdoti vedevano Gesù come una minaccia per Dio, una forza che avrebbe indebolito la loro tradizione religiosa. Duemila anni dopo, gruppi di cristiani conservatori si uniscono al governo per poter preservare la tradizionale conoscenza di Dio e della religione.
Ci chiediamo perché Hollywood sembra essere così sulla difensiva. Forse quelli che sono stati perseguitati più duramente e più di recente possono identificare meglio di chiunque altro le minacce rappresentate dai ben intenzionati difensori di Dio. Molti continueranno una campagna volta a ripulire Hollywood e mentre si sbarazzeranno di ogni aspetto legato al sesso, alla violenza e alla volgarità gratuita dovranno però assicurarsi di eliminare, nel frattempo, anche alcuni ingombranti ostacoli storici.Come sceneggiatore che tenta di seguire Gesù suggerisco di iniziare la nostra apologetica facendo delle scuse. The Passion ritrae un Gesù che accetta umilmente la croce. Spero e prego che la Chiesa si comporti altrettanto umilmente nei confronti di Hollywood.San Paolo nel suo verso – poco discusso e raramente memorizzato – della prima lettera ai Corinzi 5,12 delineò un’efficace strategia per un impegno culturale: «Spetta forse a me giudicare coloro che non appartengono alla Chiesa? Non sono quelli di dentro che voi giudicate?». Gli unici peccati di cui siamo responsabili sono i nostri. Dopo un centinaio di anni in cui abbiamo preso a sassate la cultura, forse possiamo iniziare un nuovo secolo riconoscendo la nostra complicità, confessando i nostri peccati.
La passione di Cristo si conclude con una scena profondamente semplice e poetica. Un masso rotola via dall’entrata di una tomba, un alito di vento o uno spirito si innalza da un sudario; il Cristo crocifisso appare vivo, in piena salute. Quest’efficace, potente resurrezione cinematografica non richiede nessun tipo di fuochi d’artificio, spettacoli pirotecnici o effetti speciali. è un momento tranquillo, intimo, privo di qualsiasi esibizione ostentata, di protesta o di qualsiasi riflesso politico. Se la Chiesa sceglie un atteggiamento di confessione e di pentimento quieto e umile allora, forse, è possibile una resurrezione. Anche a Hollywood.
*Craig Detweiler insegna Comunicazioni di massa alla Biola University. è anche sceneggiatore e autore del libro A Matrix of Meaning: Finding God in Pop Culture. Ha scritto i film The Duke per la Buena Vista e Extreme Days per Providence Entertainment. Il suo documentario Williams Sindrome: A Highly Musical Species è stato premiato con un Cine Golden Eagle e il Crystal Heart Award all’Heartland Film Festival. è anche collaboratore della rivista The Mars Hill Review. Il suo testo A Matrix of Meaning scritto con Barry Taylor è stato riconosciuto dall’Evangelical Christian Publishers Association come uno dei cinque libri finalisti per il Gold Medallion Book Award in teologia/dottrina.

Il moralista che ama le Mercedes

di Giancarlo Perna
Pur non facendo niente di concreto, Antonio Di Pietro riesce ogni giorno a fare parlare di sé. Di tutto si impiccia, salvo che delle Infrastrutture di cui è ministro. Il Ponte di Messina è saltato, l’Alta Velocità ferroviaria è ferma, il bisogno di case intatto. A Tonino non importa un piffero. Lui si occupa dei massimi sistemi: gli eccessivi costi della politica, la moralità dello Stato, la difesa d’ufficio delle toghe da cui proviene.Ha preso di mira Mastella per fatto personale. Clemente gli ha infatti soffiato il posto di Guardasigilli cui aspirava. Non gliene passa una. Dall’aereo di Stato preso col figlio per assistere alla corsa automobilistica, all’indulto. Si è impancato giurando che voli di Stato lui non ne aveva mai presi. Poi, si è scoperto che li utilizza pure lui. Sbugiardato, ha fatto il broncetto. Mentire per darsi un’aria da padreterno, è una costante di Tonino che, a 58 anni, stenta a raggiungere lo stadio adulto.Anche la storia dell’indulto 2006 è diversa da come la racconta. Ogni volta che un manigoldo appena liberato sgozza la vittima di turno, Tonino esclama: «L’avevo detto io». Non è affatto così. Sulla clemenza ai delinquenti che usano coltelli e pistole, Di Pietro era d’accordo. Identico a Mastella, la considerava un ottimo espediente per svuotare le carceri troppo piene. La differenza tra i due è che l’ex pm di Mani pulite non voleva l’indulto per i reati finanziari, societari e di corruzione. Scleroticamente ancorato al suo passato, odia più i colletti bianchi degli assassini. È per tenere in galera costoro che l’ineffabile, nell’estate dell’anno scorso, manifestò davanti Montecitorio. Pareva una macchietta, ma inaugurò la moda del gabinetto Prodi: quella di ministri e sottosegretari che urlano in piazza contro il governo di cui fanno parte.Di Pietro si è dato al teatro, incapace di fare di più. L’ex pm ha scoperto a sue spese che è più facile sbattere un tizio in galera con uno schiocco di dita che ottenere risultati in politica. Capì l’antifona diventato ministro dei Lavori Pubblici del primo governo Prodi nel 1996. Fanatico del decisionismo, rodomonte come pochi, decise di risolvere in un giorno il cinquantennale problema degli affitti. Convocò i sindacati a Porta Pia - sede del ministero - e li catechizzò: «Entro stasera troviamo l’accordo, domani faccio un decreto legge». Fecero invece una matassa di lana caprina e non approdarono a nulla. Si arrivò a una micro sistemazione degli affitti solo due anni dopo, quando Di Pietro era già fuori dal governo e vagolava come un’anima in pena.Da allora, appresa la lezione, Totò fa solo ammuìna. Va in tv, si eccita, fa il viso da matto, spara a zero. In questo anno e mezzo al governo, ha minacciato di farlo cadere più volte di quante non abbia sfogliato un libro. Ma è tutta fuffa. Esemplare il suo atteggiamento nella faccenda Visco-Speciale. Assodato in tribunale che l’attacco del viceministro ds al generale era stato illegittimo, Totò ha tuonato: «Visco faccia un passo indietro». Duro come roccia, l’inflessibile ex pm pareva deciso a esigere le dimissioni del fiscale di Foggia. Tutto il centrosinistra a disperarsi per la crisi imminente. Bene. Quattro giorni fa, i senatori di Italia dei Valori - il partito dell’ineffabile - hanno votato compatti fiducia e stima a Visco. Tonino ha dichiarato euforico: «L’assalto di Berlusconi è stato respinto». Aveva fatto tana due volte: era al centro dell’attenzione e si era tenuta stretta la poltrona.Nessuno crede più alle sue grida. Chi lo conosce meglio, lo snobba più degli altri. Sono legioni quelli che, fatto un tratto di strada insieme, lo sfuggono come cosa non grata. Dopo l’uscita di Tonino dal pool di Milano, il suo capo, Borrelli, precisò: «Mai andati oltre il lei». Il suo responsabile legislativo ai Lavori Pubblici nel ’96, Mario Cicala, magistrato anche lui, abbandonò l’incarico dopo appena due mesi. Scomparsi in massa gli illusi della prima ora che credevano di combattere con l’ineffabile la battaglia della moralità: i Federico Orlando, i Willer Bordon, i Mirko Tremaglia. Nessuno ha mai detto con chiarezza cosa li abbia delusi. Ma da un accenno di un ex fedelissimo, Elio Veltri, si può arguire che a respingerli sia l’inveterata disinvoltura dell’autoproclamato moralizzatore. La stessa che da magistrato lo spinse ad accettare l’indimenticata Mercedes e il prestito senza interessi di 120 milioni. Di lui, Veltri ha detto: «Dall’Italia dei Valori all’Italia dei valori immobiliari». Felice gioco di parole che ha spalancato un ghiotto scenario di mattoni.Tonino è titolare di una società immobiliare, la An.to.cri. srl, dalle iniziali dei figli di primo e secondo letto: Anna, Totò, Cristiano. Con l’aziendina di famiglia, il ministro delle Infrastrutture ha acquistato due appartamenti. Uno a Milano di nove vani da Marco Tronchetti Provera e uno a Roma di 10,5 stanze. Entrambi sono stati comprati con un mutuo, rispettivamente di 300mila e 400mila euro. Le due case sono state poi oculatamente affittate dall’ex pm al suo partito - Idv - a un prezzo superiore alle rate dei mutui. Altrimenti detto, con i soldi del finanziamento pubblico, l’Idv versava al suo leader l’ammontare mensile del prestito bancario, più una mancetta per le piccole spese, dalle cravatte per andare a Ballarò, alla tintoria quando deciderà di farci un salto invece di tenere i vestiti stazzonati. I giornali si sono accorti della faccenda quest’estate. È parsa poco bella e l’hanno denunciata. A frittata fatta, Di Pietro ha venduto di corsa gli appartamenti. Ora, è molto liquido e vedremo quale sarà la sua prossima mossa nel campo del mattone.Intanto ha trasferito il quartiere generale romano dell’Idv, affittando l’ex sede Psdi di via Santa Maria in Via, due passi da Palazzo Chigi. Per un curioso caso, nello stesso edificio c’è la redazione di Italia Oggi, il quotidiano che ha svelato la gabola dei due appartamenti. E poiché Tonino urla durante le riunioni di partito le più interessanti finiscono in pagina a puntate. Certo, questo insieme, è una maledizione per l’ex pm. Però, se l’è cercata. Nel mondo complesso in cui viviamo, un conflitto di interessi anche piccolo, come l’intreccio mutui-affitto-Idv, è sempre in agguato. Ma se a fare il passo falso sono i moralisti 24 ore su 24, è fatale che i primi a essere travolti dal meccanismo innescato siano proprio loro. Vale per tutti i moralizzatori della domenica, da Di Pietro a Beppe Grillo.Nato nel contado molisano di Montenero di Bisaccia, Tonino fu dirozzato nel seminario di Termoli dove imparò a bere il latte nella tazza anziché, secondo la sua leggenda, abbeverarsi alle mammelle della mucca. Prese un diploma di perito industriale ed emigrò in Germania. Fu assunto da una fabbrica di posate e messo a lucidare cucchiai. Nonostante lucidasse da dio, decise di tornare in Italia e profittare delle leggi post ’68 che aprivano indiscriminatamente gli accessi universitari per iscriversi a 23 anni, lui perito tecnico, alla Facoltà di Legge della Statale di Milano. Si laureò nei tempi canonici, senza però mai colmare le lacune nel latino di cui la giurisprudenza è ricca. I suoi sfondoni sono così esilaranti da aizzare quel bello spirito di Alfredo Biondi, suo collega parlamentare ed ex Guardasigilli. Biondi, se c’è Di Pietro in Aula o in commissione, sforna continui brocardi latini unicamente per godersi gli occhi a palla di Tonino che li scambia per cinese.L’estraneità alla lingua delle Pandette stava per giocargli un brutto scherzo anche nel secondo tentativo di superare il concorso in magistratura. Presidente della commissione era Corrado Carnevale, giudice severo e garantista che subì poi un calvario perché sgradito alla parte forcaiola della magistratura. All’interrogazione di Diritto romano, Tonino maltrattò il latino suscitando lo sdegno del commissario che si pronunciò per la bocciatura. Carnevale, che si era commosso leggendo il curriculum del molisano - contadino, emigrante, operaio, etc. - intervenne e gli fece un po’ di domande per metterlo a suo agio. Su alcune fece scena muta, ad altre rispose in pittoresco dipietrese. La commissione, imbarazzata, era orientata a fargli ripetere il concorso una terza volta. Ma Carnevale, dominato dal buon cuore, mise in luce le umili origini e la buona volontà del candidato. Alla fine la spuntò e Tonino indossò la toga. Cosa ci abbia fatto, è noto a tutti. Tanto che, anni dopo, Carnevale ripensando al suo ruolo in quella risicata promozione, disse: «Non lo rifarei mai più». Da ormai dodici anni, l’ex pm è parte dell’esaltante panorama della Seconda Repubblica in cui si è intrufolato a forza, scardinando a suon di manette la Prima. La sua utilità è zero. Resta la consolazione che non sia più magistrato.